Non sono in grado di dirvi se anche i Thunder si siano recati, in un lontano passato, in prossimità di un misterioso crocicchio del Mississipi per vendere l’anima al diavolo (come si narra abbia fatto proprio il mitico Johnson) o se per diventare quello che sono diventati abbiano intrapreso, analogamente al Ralph Macchio di “Crossroads” (il film di Walter Hill conosciuto anche come “Mississipi adventure”, con i contributi di Ry Cooder, del mago dell’armonica Sonny Terry e di uno Steve Vai perfetto pure come attore nel ruolo di Jack Butler, il campione chitarristico di Belzebù) un avventuroso e formativo viaggio nel sud degli Stati Uniti, alla ricerca della fantomatica canzone perduta del grande Robert e oggi abbiano voluto, visto il titolo della loro nuova fatica discografica, rendere omaggio ad uno dei loro principali modelli, ma è sicuro che per Danny, Luke, Ben, Harry e Chris, il prestigioso appellativo di “uomini di blues” (anelato e poi faticosamente conquistato dal giovane Martone / Macchio nella succitata pellicola) sia sicuramente meritato.
In realtà la loro specialità è l’hard-blues, quella musica in cui più che in altre ciò che conta è l’attitudine e la “vocazione” e dove la forza delle chitarre e i tempi sincopati delle ritmiche strapazzano la “musica nera” per eccellenza mutuandone l’intensità talvolta sofferta, la voglia di libertà e trasgressione oltre che la carica passionale.
I più accreditati numi tutelari del nostro quintetto britannico appaiono, dunque, Free, Humble Pie, Bad Company, Led Zeppelin, Whitesnake, AC/DC, insomma tutti gruppi davvero abili nell’assorbire lo spirito del blues e adeguarlo alle “necessità” delle “nuove” generazioni, creando uno stile dai connotati emozionali immortali e costantemente attuali, il quale rivive nelle sapienti mani dei Thunder con una naturalezza e una sapienza non così comuni.
Se avevate apprezzato l’eccellente “The magnificent seventh” (e la produzione precedente), non potrete non amare allo stesso modo pure “Robert Johnson’s tombstone”, anche se probabilmente sarà necessario applicarcisi un pochino di più per comprenderlo appieno.
Il nuovo Cd non è, forse, straordinariamente immediato come il suo predecessore, ma sono sicuro che già durante la seconda o la terza sessione d’ascolto ritroverete, se già non l’avete fatto nella prima, tutte quelle formidabili sensazioni che “Il magnifico settimo” aveva saputo regalare munificamente.
La title-track, la splendida “Dirty dream”, la brillante “Don’t wanna talk about love”, “The devil made me do it”, il tocco Zeppelin-esque della formidabile “Last man standing”, la trascinante “Andy Warhol said” e poi ancora “What a beautiful day” e la bellissima “Stubborn kinda love” sapranno coinvolgervi con la loro energia viscerale, un feeling tangibile e una capacità compositiva scintillante (e non è affatto facile visto il genere così caratterizzato), rappresentando la risultante di un gruppo perfettamente “accordato”, da cui emerge la chitarra ficcante e fluida di Morley e la voce vibrante e ardente di Bowes, la quale non perde un’oncia della sua espressività neanche quando affronta situazioni maggiormente “soffici”, come accade nella soulful “A million faces”, nella ballata acustica “My darkest hour” o nella pianistica “It’s all about you” e la grana del velluto della sua timbrica si fa più raffinata e morbida.
Il “Tuono” albionico colpisce ancora una volta nel segno in maniera assai fragorosa e se è vero che il suo hard-rock-blues è molto “classico”, per favore non chiamatelo “old stuff” in maniera “dispregiativa” … nella buona musica suonata col cuore non vi è proprio nulla di “sorpassato”.
Lunga vita ai Thunder!
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