“La storia dell’heavy metal”.Titolo parecchio sontuoso, quello dato dagli
Slaves To Fashion al loro nuovo disco, secondo in carriera, che vuole essere in tutte le sue forme un tributo alla musica che tutti noi amiamo, a 50 anni dalla release di uno degli album cardine dell’intero genere, l’omonimo dei Black Sabbath uscito nel 1970. Seppur sia uscito nel 2021 infatti, la band aveva già iniziato a pubblicare a Febbraio del 2020 (e nello stesso giorno della release del primo Black Sabbath) un singolo al mese, per poi tornare esattamente un anno dopo con la pubblicazione dell’intero disco.
Un titolo molto magniloquente dicevo all’inizio, e il rischio di trovarsi davanti a uno dei soliti dischi celebrativi di qualcosa, con tanto fumo dietro, ma con poca sostanza era presente, ma durante l’ascolto dei vari pezzi, non ho trovato chissà cosa di disastroso, ma neanche eccelso. Andiamo però nello specifico.
Va detto che
“The History Of Heavy Metal” seppur viaggi su sonorità prettamente metal classico, riesce a dare all’ascoltatore una diversa accezione di ogni genere nei diversi pezzi.
“The Priest Of Maidenhead” (e già il titolo dovrebbe dirvi tutto), sembra uscita direttamente dagli inizi degli eighties, in piena N.W.O.B.H.M, mentre
“Sex, Drugs & Rock N’ Roll” potrebbe essere una delle tante canzoni che passavano in radio nei vari locali della Sunseat Strip Boleuvard. Nonostante una produzione che non brilla eccessivamente, soprattutto per i suoni della batteria, gli
Slaves To Fashion riescono nell’impresa di catapultare chi ascolta in varie epoche e stili musicali, i quali hanno contribuito a trasformare negli anni l’heavy metal. Si cala un po’ con
“Thrash Of The Titans”, che vuole celebrare i capolavori del Thrash usando come parole unicamente i dischi cardine del genere (un po’ come fecero i Sabaton con "Man Of War" e "Metal Crue"), ma risultando abbastanza stucchevole.
“The NU Wine” sembra essere una B-Side dei primi Korn o Disturbed, la quale personalmente non mi ha fatto impazzire ma che nel contesto generale del disco può anche starci, al contrario
“Power Of Metal” risulta parecchio spompata e anonima.
“Garden Of Chains” puzza di 90’s da tutti i pori, e nel suo piccolo (grazie anche alla breve durata) funziona, mentre vorrei spendere qualche parola sulla lunga
“The Evergrowing Tree”, di ben 13 minuti. Un pezzo che mi ha lasciato abbastanza spiazzato, visto che nella prima metà mette in mostra ottime soluzioni musicali, da un riff coinvolgente e tastiere dosate alla perfezione che creano un’aura di misticismo, per poi evolversi in un groove metal alla Pantera, mentre nella seconda parte ciccia fuori dal nulla un growl misto a sonorità Doom che non si capisce bene cosa ci azzecchi nel pezzo. Fosse durata sui 6/7 minuti, starei parlando invece di un pezzo completamente riuscito.
Operazione tributo riuscita quidi? Nì, diciamo che
“The History Of Heavy Metal” è un album che in alcune parti riesce a dar giusto omaggio ai vari sottogeneri, mentre in altre non si capisce esattamente dove voglia andare a parare. Complice anche una durata eccessiva, quasi un’ora di ascolto, un taglio di un paio di minuti qua e là avrebbe sicuramente giovato. Nel complesso però, sicuramente qui troviamo un buon arrosto, oltre che al fumo.
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