Anche se siamo solo a fine febbraio, e con davanti ancora dieci mesi pieni di uscite discografiche sulle quali sbavare, inorridire o passare avanti con indifferenza, possiamo comunque incominciare a segnare i dischi candidati ad entrare nella top ten di fine album. Per conto mio il primo nome candidato può essere tranquillamente quest'ultima fatica dei norvegesi Red Harvest. Chi ha già avuto modo di ascoltare i loro precedenti lavori sa di cosa sto parlando. "A Greater Darkness" continua a seguire il filo logico e musicale che oramai prosegue da quasi 20 anni (ufficialmente si sono formati nel 1989), carico di oppressione e dolore apocalittico, dove chitarre pesantissime sono intente ad elaborare riffs colossali, inarrestabili come la morte, mentre campionature industriali ed effetti rumoristi corredati da atmosfere che sintetizzano la disperazione della vita formano un tappeto sonoro al tempo stesso lacerante e brutale. I tempi lenti e possenti di "Antidote" e "Icons of Fear..." si mescolano alle divagazioni elettronicamente oscure di "Beyond the Limits..." e "Warthemes", mentre le ibride ""Hole In Me" e "Dead Cities" chiudono il cerchio dell'album. Colpisce anche la finale "Distorted Eyes", la cui struttura basata praticamente su due riffs viene ripetuta incessantemente per dieci minuti prima di sfociare nel rumorismo puro di "Proprioceptor". I Red Harvest si definiscono "Apocaliptyc Industrial Paranoia Metal", e credo che mai etichetta tanto pomposa sia stata tanto azzeccata. Da avere assolutamente.
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