Prima la crisi d’identità dei grandi “Padri” del
rock duro britannico, poi l’avvento e il successivo progressivo declino di
new-wave e
punk, hanno dato vita a uno dei movimenti musicali e sociali più variegati e influenti del Regno Unito, non a caso denominato
New Wave of British Heavy Metal, a indicare una “nuova ondata” di sonorità
hard n’ heavy, un “risorgimento” che fosse in grado in qualche modo anche di onorare la lezione dei capiscuola albionici degli anni settanta.
Un impulso espressivo che per comodità, nonostante le tante sfumature che lo caratterizzano, è diventato anche “genere”, sostenuto da una miriade di formazioni musicali, alcune arrivate al successo, molte altre fagocitate dall’oblio della sfortuna, dell’ingenuità e della sovrabbondanza, per poi magari venire “riscoperte” ciclicamente in tempi più recenti, quando doverosa rivalutazione artistica e stagnazione creativa si fondono spesso in un’unica entità.
I
Tokyo Blade rappresentano uno dei capitoli importanti di questa multiforme letteratura sonora: alimentati dallo spirito di rivalsa della “classe operaia”, costretti a modificare il proprio approccio iniziale per rendere maggiormente “commerciale” la loro proposta, hanno tentato in tutti i modi di “sopravvivere” alle mode fino ai giorni nostri, grazie alla dedizione di un irriducibile
Andy Boulton, personaggio tutt’altro che “infallibile” nelle sue scelte ma di certo fomentato da una profonda e viscerale passione per la musica e per la sua “creatura”.
Oggi, però, non siamo qui a commentare il “presente” (comunque più che dignitoso) dei
Tokyo Blade e sfruttiamo questa ristampa del loro secondo
full-length “
Night of the blade” ad opera della
High Roller Records per segnalare, a chi ancora non lo possedesse, un disco molto valido, arrivato dopo il debutto eponimo del 1983 (per chi scrive da considerare un “documento” fondamentale della
NWOBHM) nel momento in cui la loro etichetta (la Powerstation Records) stava cercando di lanciarli su vasta scala.
In quest’ottica è da considerare la sostituzione del cantante
Alan Marsh con
Vicki James Wright (poi negli ottimi Johnny Crash) avvenuta quando ormai l’albo era già praticamente pronto (il
singer originale è ancora apprezzabile in alcune
backing vocals) con lo scopo di “americanizzare” il suono del gruppo.
Difficile non riconoscere l’influsso dei Def Leppard nell’
opener “
Someone to love” o, in “
Rock me to the limit” e nelle intriganti pulsazioni di “
Love struck” e “
Lightning strikes (Straight through the heart)”, non rilevare il contributo di suggestioni soniche provenienti d’oltreoceano, utili ad assolvere piuttosto bene le “nuove” necessità melodiche del gruppo.
Dall’altra parte, però, l’
anthemica title-track può ancora “insegnare” qualcosa a tanti novelli
metal-heads contemporanei, al pari dell’evocativa "
Warrior of the rising sun” e della veloce "
Unleash the beast”, capaci di procurare fremiti di soddisfazione agli estimatori di Iron Maiden, Saxon e Tygers Of Pan Tang.
Con “
Dead of the night” i nostri sconfinano in territori caliginosi e solenni, dimostrando ottime qualità anche in questo specifico ambito, consegnando ai posteri un lavoro da (ri)scoprire senza indugi, perché solo l’analisi della “storia” può aiutare a comprendere meglio i propri tempi, e così, nello specifico, contribuire pure a valutare in maniera circostanziata tutte le inesauribili
new sensation che contraddistinguono la “scena”.