Puntualmente, ogni due anni, i brutal deathster statunitensi
Pathology timbrano il cartellino (virtuale) pubblicando una nuova opera intrisa di sangue, icore e budella intitolata
“The everlasting plague” il quale è nientepopodimeno che l’undicesimo (sì avete capito bene un-di-ce-si-mo) album in studio in quindici anni di carriera, il primo pubblicato attraverso la Real Casa di Donzdorf.
Del quartetto originale del 2006 è rimasto solo il batterista
Dave Astor e, dopo la rivoluzione intercorsa nel 2018 dopo l’uscita dell’omonimo lavoro, questo è il secondo album consecutivo che vede la formazione stabile con
Obie Flett dietro al microfono,
Dan Richardson alla chitarra e
Ricky Jackson alle quattro corde.
Ai
Pathology è stato spesso additato un certo immobilismo nella fase di scrittura delle canzoni, puntando le proprie fiches esclusivamente su un folle impatto sonoro “addolcito” da break pieni di groove in cui tutto o quasi gira intorno al drumming di
Dave Astor.
A questo giro però qualcosa è cambiato, eccome se è cambiato! Vuoi l’approdo per
Nuclear Blast, vuoi perché dopo tanti anni di lavoro si è sentita l’esigenza di fare qualcosa di diverso, in
“The everlasting plague” nel sound dei
Pathology troviamo una bella iniezione di riff prettamente melodici.
Attenzione: ciò non significa che si è abbandonata la strada maestra fatta di ritmiche ultraserrate (e triggerate) pig squeal e growl, più semplicemente la band californiana ha deciso di spingere il proprio interesse verso lidi più prettamente melodeath, così come evidenziato dagli assoli prodotti da
Dan Richardson.
Certo è che quando si opera un cambiamento piuttosto radicale come questo, il rischio di inciampare si annidi dietro l’angolo. In questo caso ciò è rappresentato dal COME queste iniezioni di melodia, queste orchestrazioni vengono iniettate nello storico corpo brutale dei
Pathology, tant’è che durante lo scorrere del timer ho avuto la sensazione che, in alcuni passaggi, tutto ciò non scorra fluidamente, come un forzato innesto.
Al termine degli ascolti, dopo aver lasciato decantare per bene i pensieri e le sensazioni, non è un peccato affermare che in
“The everlasting plague” ci sia molta maniera e tanto mestiere (N.d.r.: E ci mancherebbe altro! Non si giunge alla pubblicazione di undici album se non si è capaci di lavorare in studio) rendendo il disco complessivamente buono, superiore a tanta roba che circola in giro, ma allo stesso tempo l’assenza di spunti davvero memorabili, difficilmente lo farà finire fra i top del 2021 del settore.
Per capire se questa scelta produrrà nel tempo i frutti sperati, non ci resta che aspettare altri due anni. O no?
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