Distratti quotidianamente da miriadi di sollecitazioni musicali e travolti da quantità enormi di uscite discografiche, si è quasi completamente perso il senso di “attesa” per una nuova proposta artistica dei propri beniamini, ma tra i gruppi che meritano di scatenare tali antiche sensazioni, ci sono sicuramente i
The Tea Party, tanto straordinari quanto, almeno recentemente, parchi nella produzione delle loro meraviglie in note.
Avrete quindi già intuito quale può essere la mia valutazione su questo “
Blood moon rising”, che giunge a distanza di sette anni dal precedente “
The ocean at the end” e si rivela ancora una volta un’opera splendida, “trasversale” nel combinare
hard,
blues, barlumi
prog,
new-wave e mistero esotico, intrisa del carisma di una
band che, nonostante una carriera pressoché impeccabile, non ha ancora conquistato pienamente i favori del “grande” pubblico.
Un peccato, o forse solo il “destino” di quelli che non hanno paura di mescolare i Led Zeppelin con i Joy Division e di inserirli in contesto artistico proprio, pienamente maturo nella forma e nella sostanza, al tempo stesso trasparente, oscuro e intenso, vicinissimo all’agognata dimensione della perfezione emozionale.
Per chi, colpevolmente, non li conoscesse, possiamo aggiungere i nomi di Soundgarden, Pearl Jam,
David Bowie, Pink Floyd, Doors e The Cure tra i plausibili riferimenti, avvisando però i suddetti imbelli che qui non troveranno mai “furti” espliciti o pavidi riciclaggi.
Jeff Martin,
Stuart Chatwood e
Jeff Burrows sono “semplicemente” musicisti e compositori assai preparati e colti, che sanno ammantare le loro canzoni di chitarre incisive, ritmiche dense e voci comunicative e melodrammatiche, spaziando con disinvoltura tra le innumerevoli sfumature del
rock n’ roll.
Quattordici brani (alcuni dei quali già apprezzabili in un
Ep del 2019) che rappresentano benissimo il “credo” espressivo dei canadesi, a partire da “
Black river”, "
Way way down” (una “roba” da far invidia a The Black Keys e Rival Sons, presente anche come
bonus live) e dalla liquida "
Sunshower” che, per palpabile tensione emotiva, riescono a sfuggire il senso di ovvietà tipico delle
hard-rock songs di derivazione
Zeppelin-
iana tanto diffuso anche in questo nostro incerto 2021.
Il
groove cupo di “
So careless” esplora il mondo delle ombre e scava nell’animo dell’astante, conquistato, subito dopo anche dalla delicatezza malinconica di “
Our love”, dalle vibranti scosse elettriche di “
Hole in my heart”, dell’avvolgente “
Shelter”e della spigliata “
Summertime” (non lontana dai The Cult), ancora una volta figlie “legittime” di quel
Dirigibile esplicitamente omaggiato con una riuscita versione della sua “
Out on the tiles”.
L’andatura distesa, lirica e quasi mistica concessa a “
The beautiful” rende il pezzo adatto pure alle programmazioni radiofoniche contemporanee, mentre con “
Blood moon rising (Wattsy’s Song)” i
The Tea Party riprendono a frequentare i suoni della “tradizione”, stavolta scegliendo la pigrezza del
southern come terreno su cui muovere i loro sicuri passi sonici.
Ancora due eccellenti
cover, “
Isolation” dei Joy Division e “
Everyday is like sunday” di Morrissey, arrivano a confermare l’approccio sonoro variegato e senza pastoie di una formazione illuminata dal sacro fuoco dell’ispirazione e capace di distillare emozioni forti, di quelle che quando t’investono ti fanno ricordare perché certe cose rimangono (ed è bello attenderle …) e certe altre svaniscono senza lasciare traccia.