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Sabbat sono una band inglese formatasi nella seconda metà degli anni 80 (credo nel 1985) dalle ceneri degli Hydra, e insieme ad Onslaught e Xentrix rappresentano una delle principali formazioni Thrash Metal del suolo britannico. Il nome del gruppo è stato ispirato da quello di un'antica festa celtica di stampo pagano; e si differenziò rispetto alle altre realtà del genere proprio per le tematiche indissolubilmente legate alla relativa mitologia delle isole anglosassoni, oltre che alla storia inglese in generale.
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Sabbat, nel 1988, in seguito alla pubblicazione di alcuni demo e singoli nei quattro anni precedenti, raggiunsero il traguardo del loro primo full-length: "History of a Time to Come" (Noise Records), e solo un anno dopo, nel 1989, diedero alle stampe "
Dreamweaver" con la medesima label; disco che adesso prenderemo in esame.
I Sabbat di "
Dreamweaver" sono "quasi" gli stessi del loro debut album, ovvero:
Martin Walkyier al microfono,
Andy Sneap alla chitarra,
Frazer Craske al basso e
Simon Negus alle pelli, con l'aggiunta del nuovo membro
Simon Jones alla seconda chitarra.
Per i più appassionati di Thrash e di Metal in generale, non può non risaltare all'occhio il nome di
Andy Sneap, il quale in seguito diventerà – ed è tutt'ora – uno dei produttori più importanti di tutto il panorama metallico; giusto per ricordare alcuni nomi di gruppi da lui prodotti si pensi a Exodus, Testament, Kreator, Opeth, Nevermore, Saxon, Megadeth, Overkill e tantissimi altri.
La proposta musicale presentata dai
Sabbat in "
Dreamweaver" è un Thrash Metal estremamente tagliente e ruvido, dato soprattutto dal lavoro di
Sneap e
Jones alle chitarre, che ben si sposa con la particolarissima voce al vetriolo di
Martin Walkyier, una sorta di incrocio tra Souza e Bobby Ellsworth. Le coordinate stilistiche sono quelle tipiche di un sound intransigente, furioso e selvaggio, dove tuttavia coesiste una certa componente "tecnica", e a tratti "progressive", che dona un substrato di complessità al platter, permettendogli così di distinguersi tra i vari prodotti del genere che in quegli anni affollavano l'underground. Non si parla di particolari virtuosismi ma di strutture ritmiche che puntano lo sguardo verso un orizzonte di trame intricate e di suite ripetute, fattore che se da un lato dona carattere al disco, dall'altro rende il prodotto bisognoso di maggiore attenzione e di ripetuti ascolti per essere correttamente assimilato; fatica che secondo me val la pena di fare data la qualità dei pezzi in esso contenuti.
La componente "Technical", se paragonata ad "History of a Time to Come", è sviluppata in maniera molto più convincente, come d'altronde lo è l'album nel suo insieme.
Nel loro primo full-length tale peculiarità risultava ancora acerba e in vari frangenti non pienamente riuscita, e questo, secondo il mio modesto giudizio, dipese da due fattori: il primo la produzione, affidata a
Roy M. Rowland – produttore anche di "
Dreamweaver" –, che se da un lato conferiva un suono selvaggio, dall'altro non era all'altezza di porre adeguatamente in rilievo gli intrecci dissonanti proposti dall'ex quartetto britannico.
Il secondo fattore si potrebbe rinvenire nella lieve carenza a livello di songwriting che ancora affliggeva la band, elemento che si poteva riscontrare particolarmente nelle tracce più lunghe, dove in certi passaggi mancava il giusto collante e la necessaria fluidità che avrebbe consentito di congiungere e contenere la proposta sonora in un unico recipiente.
Ecco, a mio modo di vedere queste pecche sono state ampiamente superate in “
Dreamweaver”; si avverte un miglioramento generale di tutti i componenti, in particolar modo a partire dal lavoro delle chitarre, che giova dell'entrata in formazione di
Jones a coadiuvare un
Andy Sneap sempre più preciso ed efferato nel suo stile e nelle sue capacità di compositore (è lui il principale autore dei brani).
Il lavoro al microfono di
Martin Walkyier è di grande fattura, nettamente migliorato rispetto a quello svolto sul suo predecessore, risultando maggiormente impostato e sempre più personale; la particolarità di
Martin, oltre che la tonalità piuttosto singolare, è la sua eccezionale capacità di lyricist. I suoi testi risultano molto ricercati nella struttura fonetica, basata su una grande attenzione per rime e assonanze, le quali donano una musicalità intrinseca alle parole stesse; probabilmente questa sua qualità è un retaggio della sua passione giovanile per la poesia.
Per quel che riguarda
Franz Craske al basso, si limita a svolgere un lavoro di mestiere e a sostenere il muro sonoro della coppia d'asce
Sneap/Jones, mentre
Simon Negus alle pelli sfodera una prestazione dirompente e tecnica al tempo stesso, seppur carente del giusto groove che potrebbe dare una marcia in più al lotto.
Il secondo lavoro degli inglesi consta di 9 brani per un totale di circa 44 minuti. É un’opera che scorre piacevolmente nonostante la sua complessità; probabilmente avrebbe giocato a favore della sua economia la capacità di inserire qualche struttura più catchy, così da poter rimanere facilmente nella mente dell'ascoltatore, senza rischiare di appiattire l'individualità delle singole tracce sotto il segno della tecnica, come invece purtroppo in parte avviene.
In ogni caso siamo al cospetto di un ottimo disco, ben costruito e monolitico nel suo incedere, tra trame intricate e lievi aperture melodiche, il tutto avvolto da un misto di violenza e spiritualità mistica. Non si pensi però ad un lavoro atmosferico, i
Sabbat sfoderano una serie di mitragliate velocissime in grado di inchiodare al muro chiunque, come si evince fin dalla prima "
The Clerical Conspiracy".
Sarebbe difficile isolare un momento piuttosto che un altro, si tratta di un prodotto che necessita di un un ascolto globale e certosino per essere apprezzato.
La struttura irriducibile dell'album è dovuta anche dal fatto che esso risulta essere un concept che ruota intorno al libro dello psicologo Brian Bates: "
The Way of Wyrd: Tales of an Anglo-Saxon Sorcerer", conosciuto in Italia come "La via del Wyrd". Racconto che tratta la storia del giovane monaco cristiano Wat Brand, inviato in missione nelle foreste dell'Inghilterra pagana dell'Alto Medioevo, il quale viene così a contatto con la traumatica consapevolezza della fallacia della sua visione del mondo. Ritrovandosi in un paesaggio popolato da spiriti misteriosi e attraversato da poteri ed energie sovrannaturali, dove il protagonista Brand, guidato da Wulf, apprenderà la magia delle piante e delle rune e sarà introdotto all'antica filosofia celtica.
É seguendo questa pista che il cantante nelle 9 canzoni qui proposte tratta i temi della spiritualità anglosassone e del misticismo pagano.
Di queste mi limito a segnalare la squisitezza poetica di “
Advance insanity”, dove il singer narra della sua visione predeterminata del destino di ogni singolo uomo... il resto è scoperta che affido al lettore.
La produzione come già accennato, svolta da
Roy M. Rowland, è decisamente perfezionata e riesce a donare un suono compresso e tutto sommato "pulito", senza perdere quel tocco raw che ogni opera Thrash dovrebbe avere.
Un disco da recuperare, un testimone di un certo tipo di Metal dall'alto tasso tecnico, che a modo suo, assieme ad altri prodotti come quelli di Toxik, Forbidden, Dark Angel, Megadeth e altri, ha contribuito a dare un altro volto alla scena.
"
Dreamweaver" riesce ad andare oltre la violenza sonora fine a se stessa, la quale è qui usata come mero espediente atto a immergere l'ascoltatore all'interno dell’oscuro mondo delle antiche divinità britanniche.
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..Buon viaggio.
Recensione a cura di DiX88