Una consolidata istituzione in campo heavy rock, i
Black Label Society dell'irsuto
Zakk Wylde. Lunga militanza che è andata evolvendosi dal sound grezzo e Sabbathiano degli esordi ad una prospettiva sempre più "american-roots", con l'introduzione di vibrazioni melodiche amare e nostalgiche ed in alcuni casi perfino di vere e proprie ballad dai profumi post-country.
L'undicesimo album della band, "
Doom Crew Inc.", è dedicato fin dal titolo non solo al manipolo di persone che ruotano intorno al gruppo, ma in senso più generale alla schiera dei fans che lo hanno sostenuto nell'arco della carriera. Quindi è un lavoro che conferma in pieno tutte le ben note sfumature del
BLS-sound: dai riffoni muscolari alle melodie southern-oriented, dalla voce potente ed alcolica agli improvvisi slanci romantici, dalla onnipresente ombreggiatura doomy agli assoli debordanti e trancianti. Musica nel segno di una ferrea continuità che alcuni potrebbero scambiare per stagnazione, mentre invece possiede sempre una convincente ispirazione di fondo.
Wylde è capace di comporre buone canzoni, magari non stravolgenti e talvolta un poco schematiche (riff, strofa, ritornello, break, assolo, riff, strofa, ritornello, il meccanismo che si ripete quasi costantemente), riuscendo comunque con accertata costanza a sfornare dischi di solido heavy-rock passionale e sanguigno.
Anche questa volta troviamo in scaletta una manciata di punti di forza e qualche momento meno brillante, come accaduto in tutti gli album recenti. Tra i primi, perlomeno per i miei gusti, inserisco la rocciosa "
Set you free", dal timbro robusto ma anche dannatamente orecchiabile, che insieme alla metallica "
Forsaken" evoca chiaramente il contributo di
Zakk ai lavori di Ozzy Osbourne. Poi una pesante e rugginosa "
Destroy & conquer", che col suo atteggiamento torvo e minaccioso sfida le bands di ultima generazione, e soprattutto la terremotante "
Gospel of lies" col suo tiro da assalto di cavernicoli muniti di clava.
Bene anche la tirata e cazzuta "
Gather all my sins", brano ideale per un party da tasso alcolico smisurato, il southern-heavy roccioso di "
Ruins" e la più riflessiva e cadenzata "
You made me want to live" illuminata da ritornello ficcante, assolo micidiale, qualche tocco lunare ed una sottile eco Clutch-iana.
Abbastanza stucchevole invece il romanticismo di "
Forever and a day", ballatona in cui si salva soltanto l'assolo struggente, mentre "
End of days" e "
Shelter me" sono i classici pezzi di maniera alla
BLS che non puoi definire brutti ma neppure lasciano un segno marcato. Anche la versione per piano e chitarra di "
Love reign down" (da "Stronger than death") sembra niente più che un riempitivo per un album già corposo di suo.
Nell'insieme
Zakk e soci si dimostrano affidabili come lo scorrere delle stagioni, con uno stile ormai riconoscibile al primo ascolto e la certezza di offrire un prodotto che i fans ameranno quanto i precedenti. Il chitarrista americano non sarà uno di quei geni musicali che sfornano capolavori a getto continuo, ma al tempo stesso non delude mai e mantiene intonsa la sua immagine di rocker viscerale e privo di compromessi.