Avevamo già conosciuto i messicani
Ravenous Death all’epoca del loro debutto due anni fa con la pubblicazione di
“Chapters of an evil transition” per
Memento Mori, un death metal vecchia scuola dinamico in cui la poca vena originale veniva sopperita da una genuina attitudine e predisposizione per questo tipo di sonorità.
Come spesso accade, il secondo lavoro di un artista è quello più delicato. Quello in cui si deve dimostrare, in primis a sé stessi, di aver corretto ingenuità, limato gli errori e, soprattutto per chi ha entusiasmato, che non si è trattato di un allineamento planetario fortunato.
La prima cosa che notiamo scorrendo la scaletta di
“Visions of the netherworld” è che il quartetto messicano ha deciso di sparare a grani grossi e ad alzo zero. La durata delle canzoni si è dilatata rispetto al lavoro precedente e complessivamente si supera l’ora di ascolto con tutto quello che questo comporta in termini di attenzione e “assimilazione” da parte dell’ascoltatore. Rischio calcolato o azzardo?
L’ascolto si rivela abbastanza piacevole. Il dinamismo e l’attitudine non si sono affievoliti nel corso di questi ultimi anni e la band continua nella sua opera di mischiare elementi provenienti sia dal death europeo che da quello americano, attingendo dall’esperienza musicale di gruppi quali
Vomitory, Malevolent Creation, Sinister, Vader, Cannibal Corpse, primi
Immolation.
“Visions of the netherworld” alterna momenti in cui punta maggiormente sull’intensità ad altri nei quali la band preferisce optare su sfumature più sature e sulfuree (valga come esempio il contrapporsi della doppietta centrale costituita da “
Hydra dungeon” e
“Path of the spawn dogs”) o un mix fra entrambe (v. la lunga conclusiva
“The ascending chasm”) come se i
Ravenous Death volessero dimostrare all’ascoltatore di saper gestire un registro ampio e non vivere di pura brutalità.
Complessivamente non siamo al cospetto di un brutto lavoro, però credo che
“Visions of the netherworld” rimanga troppo schiacciato dalla sua durata elefantiaca che finisce col penalizzarne gli spunti più interessanti finendo col disperderli nel trascorrere dei minuti sul lettore.
Un passo in avanti rispetto a
“Chapters of an evil transition”, ma c’è ancora qualcosa da rivedere.
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