Da diverso tempo la
Trascending Obscurity si è ritagliata un discreto spazio fra le etichette specializzate nella produzione e promozione del death metal. Avendo spesso “intercettato” le uscite della label di Mumbay, mi sono reso conto che difficilmente son rimasto deluso dalle band del loro roster e che, nel corso degli ultimi anni, non ci hanno rifilato “pacchi clamorosi”.
Per farla breve: affidabili
La pubblicazione del secondo lavoro degli
Abscession, se ce ne fosse bisogno, conferma quanto di buono detto in apertura.
La band esprime un più che valido death metal di stampo scandinavo – di quelli solidi, grassi e ronzanti – che sì rifà sia al sound di Stoccolma, che a quello di Gothenburg trovandosi a suo agio fra le esperienze di
At The Gates ed
Entombed.
Certo sappiamo tutti benissimo che siamo in territori già esplorati in lungo ed in largo nel corso degli anni e che questi sacri confini sono dedicati e guardati dalla Sacre Divinità del Metallo Morto, ma quando si ha fra le mani del buon materiale suonato con passione, determinazione e attitudine, non si può rimanere indifferenti.
“Rot of ages” attira la nostra attenzione grazia alla doppietta scoppiettante costituita da “
Rat king crawl” e
“Theater of pain” posta in apertura, in cui veniamo travolti dal ritmo indiavolato della batteria di M
arkus Porsklev e dal riffing agile del chitarrista
Markus Skroch, capace di infondere quel pizzico di melodia previsto dal genere senza snaturarne l’impianto aggressivo.
L’album prosegue su questi binari senza calare di intensità, riuscendo anzi a piazzare un paio di artigliate niente male come la titletrack – una mitragliata bollente in pieno stile anni 90 “addolcita” a metà da un passaggio synth - dalla dismemberiana
“When the guillotine falls” e dalla prepotente
“War machine” in cui invece si possono sentire echi a la
Grave.
Il cd si chiude con una outro – “
L’età della putrefazione” - dalle tinte più sofferenti ed eseguita col solo synth che, col suo incedere tranquillo, si contrappone idealmente alla furia espressa dalla band nelle nove tracce precedenti.
“Rot of ages” si è rivelata una bella sorpresa, a dimostrazione che nel fitto sottobosco lontano dalla abbagliante luce dei riflettori si riesce ancora a pescare qualcosa di vivo e pulsante.
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