Con ancora ben vivido nel compiaciuto apparato uditivo l’eccellente “
Seminole”, accolgo con notevole favore questa splendida ristampa in un’unica soluzione delle prime tre incisioni degli
Edge Of Forever, gruppo fondamentale per rafforzare la non sempre solidissima credibilità internazionale dell’
hard-rock del
Belpaese.
Raccogliere in una sola diffusione discografica il contenuto (rimasterizzato) di “
Feeding the fire”, “
Let the demon rock ‘n’ roll” e “
Another paradise” equivale a dedicare ad
Alessandro Del Vecchio e ai suoi
pards una meritatissima retrospettiva, (ri)scoprendo quanto la
band fin dal suo esordio sapesse trattare la “materia” con innata competenza e ispirazione, sorprendendo per la disinvoltura, la sicurezza e la forza comunicativa con cui si poneva sul mercato internazionale.
I principianti del
rock più volenterosi e meno impigriti avranno così, grazie a “
The days of future past”, la possibilità di solcare un formidabile percorso artistico iniziato “col botto”, con un disco che ancora oggi è altamente competitivo in quel settore musicale che vede Rainbow, Deep Purple, Talisman e Malmsteen tra i prioritari punti di riferimento.
Poter contare sulla produzione di
Marcel Jacob e sulla presenza di
Jeff Scott Soto (ospite in “
Prisoner” e artefice delle
backing vocals dell’albo) ha ovviamente contribuito ad alimentare le suddette suggestioni, ma a stagliarsi immediatamente al di sopra di ogni altra valutazione è la prestazione
monstre di
Bob Harris (Axe), un cantante non sempre adeguatamente incensato e invece spettacolare per gamma espressiva e spessore interpretativo.
Il resto lo fanno canzoni sempre molto incisive e convincenti, che rendono “
Feeding the fire” un ascolto imprescindibile per chi ama “
il rock duro con tastiere”, esemplificato al meglio delle sue possibilità in brani come la
title-track, “
Birth of the sun”, “
I Won't be a fool no more” o nella stessa “
Prisoner” in cui
Harris e
Soto si sfidano a colpi di perizia microfonica sfruttando una struttura armonica e strumentale davvero sfarzosa.
Se volete un altro saggio di fruttuosa alchimia tra melodie pulsanti e
pathos vocale arriva la Rainbow-
iana “
Mother of darkness” a soddisfare le vostre necessità, mentre sono certo che i
fans dei Rising Force non mancheranno di fremere per “
Bloodsucker” e "
The gates of hell", allo stesso modo in cui gli estimatori delle sonorità più passionali e “adulte” vedranno i propri sensi invasi di benefiche scosse endorfiniche in “
The road we walked on”, impreziosita da un'altra grande prova del
vocalist americano.
Poco dopo l’uscita dell’apprezzato esordio, gli
Edge Of Forever tornano in studio questa volta sotto il coordinamento produttivo di
Bobby Barth (famoso per aver lavorato, tra gli altri, con Jaded Heart, CITA e Guild Of Ages, nonché per essere il fondatore degli Axe) e sfornano “
Let the demon rock ‘n’ roll”, la conferma che una
label prestigiosa del calibro della MTM non aveva preso un abbaglio nell’investire su questa brillante coalizione italo-statunitense.
“
The machine” e “
Shade of november” (con un
Harris “posseduto” dallo spirito di
Glenn Hughes) si rivelano, infatti, ottimi esempi di un
songwriting tanto alimentato dai
classici quanto privo di fastidiose “cristallizzazioni”, e anche se forse il programma sconta qualche piccolo calo di tensione, è sufficiente anche solo un contatto con “
One last surrender”, “
A deep emotion” e “
In my eyes” per apprezzare l’eloquenza melodica di livello superiore di cui è dotato il gruppo.
L’ultima segnalazione la spendiamo per il clima fosco della
title-track dell’opera e per il brano “manifesto” “
Edge of forever”, che si spingono fino ai
Sabs per completare una celebrazione della tradizione attuata con buongusto e vocazione.
Quando arriva “
Another paradise” a cinque anni dal suo predecessore, è chiaro che “qualcosa” è cambiato nella consapevolezza artistica degli
Edge Of Forever, capaci di superare il fallimento della MTM e di diventare una formazione musicale completamente “italiana”.
Soprattutto è mutata la fiducia di
Del Vecchio nei propri mezzi vocali (fu lo stesso
Harris a spronarlo in tal senso) e con l’avvento della sua
leadership canora si concretizza anche un disco che considero una vera “pietra angolare” nella storia dell’
hard melodico tricolore.
Difficile trovare momenti deboli nella scaletta dell’albo e i ricchi registri fonatori di
Alessandro si addicono perfettamente a un ambiente sonoro che pur senza rinnegare il suo passato diventa maggiormente raffinato e soprattutto “personale”, andando a incrementare ulteriormente una classe già assai elevata.
“
Distant voices”, “
Another paradise” (da “brividi” autentici il duetto con
Roberto Tiranti), “
Lonely” (a tratti sembra cantata da
Eric Martin …), la vagamente Bon Jovi-
esca “
Edge of life”, e poi ancora i gioiellini
AOR “
I won’t call you” e “
Eye of the storm” e l’intensa “
What I’ve never seen” sono solo alcuni dei pezzi per cui la menzione è assolutamente doverosa, all’interno di una raccolta, lo ripeto, caratterizzata integralmente da frammenti sonici animatori di pura estasi emozionale.
Concluso un “viaggio nel tempo” comunque pienamente attuale, non rimane che segnalare la presenza di tre godibili
bonus-tracks (una per dischetto) destinate a ingolosire almeno un po’ anche i fedeli ammiratori degli
Edge Of Forever, e poi plaudere (come già successo in occasione della recente analoga pubblicazione riservata ai Mecca) la
Frontiers Music per questo “
The days of future past”, un ottimo modo per esaltare un talento tecnico e compositivo enorme, in grado di evolversi e continuare a regalare fino ai giorni nostri momenti di grande musica.