Un disco più che sufficiente, ma pieno di chiaroscuri, come l’affascinante artwork che lo rappresenta, quello partorito dagli inglesi
Famyne, provenienti da Canterbury, intitolato
II: The Ground Below.
La band, operativa dal 2014, prende il nome da “Famine” un brano degli Opeth più recenti; tuttavia curiosamente, il suo sound non ha nulla a che spartire con quello degli svedesi, piuttosto si basa su un classico heavy-doom con ritmiche massicce e cadenzate, dall’andamento ipnotico, che potrebbero richiamare, a grandi linee, quello dei connazionali Pagan Altar.
L’album in questione è comunque il classico lavoro che, come si è soliti dire, tende a crescere con il passare degli ascolti. Al primo impatto infatti, il disco potrebbe anche essere facilmente etichettato come noioso e privo di nervo, anche perché, ad essere sinceri, non è che tutto giri alla perfezione all’interno della macchina britannica.
La prima pecca è rappresentata dalla voce di
Tom Vane che, in alcune circostanze, appare debole e poco evocativa (un delitto per chiunque si voglia cimentare in un genere come il doom-epic metal) e inoltre, altro "neo" del disco, le prime 3-4 tracce di
The Ground Below, nonostante qualche riffs azzeccato, presentano un andamento eccessivamente regolare, ma soprattutto troppo ripetitivo, che rischia inevitabilmente di tediare.
Poi, esattamente a metà album, in corrispondenza di
Babylon, si registra un primo sussulto, che sembra “risvegliare il can che dorme”, in quanto ci si trova al cospetto di un brano leggermente più articolato rispetto ai precedenti, caratterizzato da atmosfere oniriche, che sembra segnare un’inversione di tendenza rispetto al percorso seguito fino a quel momento. Questa vera e propria sterzata sarà presente anche nelle successive tracce, dalla malinconica
Once More, alla “sabbathiana”
The Ai, fino alla conclusiva
For My Sins.
La seconda fatica discografica dei
Famyne si rivela quindi un lavoro, sebbene nel complesso positivo, riuscito solo per metà, caratterizzato da composizioni eccessivamente scontate e ripetitive all’inizio, molto più convincenti e dalle soluzioni multiformi quelle della seconda parte.
In questi ultimi casi infatti, gli assoli e i riffs di
Martin Emmons e
Tom Ross si fanno nettamente più incisivi ed articolati, ed anche la sezione ritmica di
Michael Ross (batteria) e
Chris Travers (basso) diventa più elaborata; peccato solamente, come già detto, che la voce di
Tom Vane si dimostri non sempre all’altezza e finisca per penalizzare leggermente anche le tracce più riuscite.