Black Widow è da sempre marchio di qualità underground, di proposte lontane dal mainstream da cassetta, pensate per un pubblico magari ristretto ma certamente colto, maturo e sensibile. Questo impegno viene mantenuto anche con il nuovo album dei parigini Northwinds, elegante formazione di scuola settantiana in bilico tra cadenze ossianiche e fascinose aperture folk-rock, le quali paiono congelare il tempo all’epoca magica dei primi Jethro Tull. Il gruppo, pur se soltanto al secondo lavoro completo, non ha timore di lanciarsi in composizioni molto lunghe e complesse, gravide di spunti interessanti, e l’ora di musica viene divisa in soli sette brani aperti e chiusi da due brevi camei d’atmosfera a cura DeathSS. Già in “Over the mountain” colpisce la facilità e la naturalezza con la quale i Northwinds legano ad un potente rifferama Sabbathiano breaks liquidi e malinconici, dove l’impronta doomeggiante viene stemperata, addolcita da vocals cristalline e ricche d’incanto.
“Lost paradise” è invece il brano che più ricorda le cose del Madman, specie nella sua incarnazione solista, sia per il riff piuttosto usuale sia per l’impostazione vocale sin troppo similare. Sicuramente la song più vicina al metal e direi agli Sheavy, citati nel booklet tra gli amici della band.
Caratura superiore per la meravigliosa suite di sedici minuti “Entre chien et loup”, una serie di movimenti legati dal filo comune di una brillante vena hard rock, che passano con disinvoltura da arrangiamenti folk celtici a spazi di prog seventies con la lead in bell’evidenza e dove risplende il sognante cantato in francese che si rivela altamente evocativo. Un brano affascinante per fini intenditori. “Violet rainbow” ci riporta di nuovo nel doom spirituale, melodico e limpido come recentemente ho sentito fare solo dai misconosciuti statunitensi Abdullah, e precede un trittico di tutto rispetto, a cominciare da “Broceliande”, immersa nella magia bretone, dove il flauto di Marco diventa elemento cardine di un brano spettacolare diviso a metà tra il Sabba ed i Cavalieri di Re Artu’. Segue il pezzo più roccioso dell’album, “King of…” che eleva il ritmo con un bell’andamento massiccio in odore Cathedral, e per concludere in bellezza, ancora il flauto medievaleggiante apre la struggente melodia di “Dancing in moonlight”, triste e brumosa cadenza con l’umore autunnale dei sogni che svaniscono, esempio didattico di come si compone una canzone lenta che arriva dritta al cuore. Pare sia chiaro che “Masters of magic” mi abbia entusiasmato più di quel che mi aspettassi, nemmeno l’impegnativa lunghezza mi sembra criticabile, visto che le canzoni scivolano via con leggerezza e senza causare sbadigli, e qualche piccola pecca nella produzione viene bilanciata dall’ottima qualità musicale. Per una volta lasciamo da parte il moderno prog-metal e torniamo a godere della matura avvenenza di quello che un tempo veniva chiamato romantic rock.
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