Serrati e caotici, oscuri e feroci, pesanti e distorti, i berlinesi
Shovel adottano ogni soluzione ultra-heavy per attirare l'attenzione degli amanti dei terroristi sonici. Il loro album d'esordio (per
Argonauta) è un gorgo melmoso sludge-doom con elementi hardcore (soprattutto nelle vocals) e rigurgiti di stoner e post-psichedelia moderna e allucinata. Un disco prodotto nella capitale germanica da
Richard Behrens (Kadavar, Samsara Blues Experiment, Elder) e masterizzato in California da
Jack Shirley (AmenRa, Deafheaven), che si presenta con sonorità ipersature, abrasive, sporche, ma al tempo stesso perfettamente delineate e funzionali al non celato obiettivo di creare un'atmosfera ipnotica e disperatamente apocalittica.
In effetti il presente lavoro potrebbe essere la colonna sonora ideale per un lungometraggio sull'estinzione dell'umanità o sull'evoluzione entropica del cosmo. Costanti urla misantropiche (molto Eyehategod) accompagnano mazzate heavy-sludge dalle coloriture quasi death metal ("
VII. Havoc"), che però non scivolano mai nella monotematicità ottusa ma si aprono a contaminazioni stoner e doom di buona personalità. Il tiro claustrofobico di "
V. Maere", così come nelle successive "
I. The void" (un incubo narco-killer) e "
II. The lake", è un didascalico esempio di blackened heavy-doom annichilente. Pesantezza e rabbia iconoclasta si fondono con rallentamenti sinistri di pura oscurità inquietante, certificando la buona maturità sfoggiata da questa formazione al debutto discografico. I berlinesi appaiono come alchimisti sonici in piena padronanza della materia, devastanti e terremotanti ma attenti a variare il registro per non intorpidire l'ascoltatore. Le canzoni possiedono dinamismo e varietà, pur restando saldamente ancorate ad un impatto virulento e soffocante.
Gli
Shovel si dimostrano anche in grado di estremizzare con successo certe suggestioni Mastodoniane, vedi "
VI. Scars of a dark past", portandole ad un livello di rabbia selvaggia davvero stordente e inserendo ancora una volta qualche scampolo di stoner roccioso e magmatico. Brevi suggestioni psichedeliche arricchiscono ulteriormente la mistura, come nella devastante "
III. The fall of the sun" che sembra realmente la soundtrack della fine del sistema solare. Un percorso di morte e rimpianto, nero come la pece e greve come un macigno sullo stomaco. Roba da panzer metallici, come la seguente "
IV. A case against optimism" che già dal titolo fa capire che qui di ottimistico non troverete nulla. Questo è lo stile del negativismo, della sofferenza, del trauma interiore, lento e distorto come una marcia patibolare e straziante come un pensiero suicidario.
In sintesi è un lavoro ideale per accompagnare una giornata temporalesca o un periodo di intensa sofferenza personale. Un meteorite heavy che esplode dagli speakers nella vostra cameretta, mentre il caos climatico devasta la terra. Molto ben costruito, strutturato, eseguito, grazie ad un'attitudine cruda e ferale come oggi si sente troppo raramente. Ottimo esordio per i tedeschi, dai quali mi attendo solide conferme nel prossimo futuro.
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