Forti del nuovo vocalist
Steve Welsh (notato su YouTube per le sue emulazioni dei grandi cantanti rock...) tornano alla ribalta gli australiani
Dead City Ruins, con il loro moderno e sanguigno classic-hard. Se ai loro esordi le influenze seventies erano ancora piuttosto evidenti (soprattutto Black Sabbath e Led Zeppelin), nel tempo la formazione di Melbourne si è smarcata da esse puntando con decisione verso uno stile potente, roccioso, contemporaneo, pur non rinnegando completamente la propria attitudine da "rock'n'roll outlaws". Torrido hard rock, leggermente metallizato per renderlo più aggressivo, massiccio nel groove ma anche molto fruibile sotto l'aspetto melodico, dotato di un solido songwriting e di parti vocali davvero incisive, questa in sintesi è la proposta che troviamo nel presente "
Shockwave".
Per la produzione si sono affidati a
Gene Freeman, lo US-producer che ha lavorato con Clutch, Crobot, Lamb of God, il quale ha garantito un taglio molto carico e affilato alla musica degli aussie. Il risultato è un disco tosto, scorrevole, grintoso, piacevole pur se saldamente entro i binari della tradizione più classica. Una sorta di Rival Sons maggiormente metallari o di Monster Truck meno grezzoni.
Canzoni anthemiche ad alto gradiente di energia dirty-rock ("
Preacher", "
Spiders", "
End of the line"), che veicolano incisivi ritornelli e botte epidermiche non indifferenti, si alternano a temi dal retrogusto catchy più pronunciato ("
Vision", la speed "
Dog on a leash") restando comunque fermamente ancorati al versante "rebel" dell'hard rock. Non manca qualche eco bluesy rivestito di una contemporanea corazza tagliente come l'acciaio ("
Madness", "
Rain", la torbida e ultra-groovy "
Drifter"), così come episodi semplicemente bombastici e pulsanti alla Airborne ("
Speed machine", "
This side of the dirt") che picchiano come pugili scatenati sul ring. L'intonazione pulita e potente di
Welsh è sicuramente una delle carte vincenti della formazione, insieme all'opera dinamica e poderosa delle due chitarre (
Cain e
Blanchard) ed alla massiccia sezione ritmica (
Murphy e
Trajanovski). Completa il tutto un songwriting assolutamente di ottimo livello: molto curato, mai ripetitivo, roccioso da rockers vecchio stampo ma anche dotato di buon airplay da nuovo millennio.
Un album maturo ed efficace quello dei
Dead City Ruins. Molto classico, senza dubbio, ma di quelli che trasudano raw-energy a piene mani. Cosa tutt'altro che trascurabile in questi tempi di moscezza rock assai pronunciata. Gli australiani invece hanno grinta da vendere, testosterone e adrenalina, grande sensibilità per le canzoni a presa immediata. Non si può chiedere di più ad un disco del genere, dove diversi episodi sfiorano l'hit fulminante.
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