Quando parli di nuovo album dei quattro di Frisco, rischi sempre di scontentare qualcuno, perché è come se si passeggiasse su di un campo minato.
Tra nostalgici che non si arrendono all’evidenza che ormai l’epoca thrash del gruppo è finita dall’88 a fanatici che tutto quello venuto post-black album sia bellissimo a chi pensa esattamente l’opposto, io sto nel mezzo.
Questo nuovo “
72 Seasons” che a detta degli ex Four Horsemen è incentrato come tematica sui primi diciott’anni dell’essere umano coi turbamenti caratteriali, emotivi e psicologici che più o meno tutti abbiamo dovuto affrontare.
Questo nuovo lavoro presenta tre punti a favore, ovvero: a) nessuna ballad; b) un ritorno a certi brani squisitamente metal come la dirompente titletrack che apre l’album dal riffone più convincente che i nostri abbiano saputo concepire da un pezzo, al primo singolo “
Lux Aeterna” dal richiamo esplicito agli idoli di gioventù
Diamond Head, ai begli up tempo con degli ottimi solos e spunti maideniani come “
Too far gone?” o “
Room of mirrors” con un accellerata che è da parecchio che non si sentiva e soprattutto brani veramente metal con richiami all’album omonimo o doom metal, sentiti, non qualcosa messo lì per far vedere che “siamo ancora noi”; c) un
James Hetfield in parte come non mai negli ultimi periodi, sbavature poche, bel piglio vocale, in alcune parti sfodera la grinta rabbiosa dei bei tempi e una buona estensione vocale.
Ma è tutto rose e fiori? NO!
Purtroppo la premiata ditta
Hetfield, Ulrich e
Hammett non si accorge che purtroppo dodici brani per settanta e passa minuti sono troppi, soprattutto se alcune composizioni sono composte da riff tirati a casaccio, buone intenzioni ma con un “vorrei ma non voglio” e allungati troppo senza sapere dove e quando finire come nei casi di “
Screaming suicide”, “
Crown of barbed wire”, “
If darkness had a son”.
Invece la conclusiva “
Inamorata” mi ha messo sul chi va là, perché qui si sperimenta tra un inizio sabbathiano bello convinto ma con qualcosa degli
AIC, poi ecco la virata centrale tra un basso in primo piano dal sapore jazz con una batteria appena accennata ed un cantato pulito e sofferto ecco che arriva il mid tempo armonizzato dalla bella melodia malinconica per poi ritornare al punto di partenza e concludere in gloria.
In sommativa è un grande album? Assolutamente no, ma è buono, a mio modesto parere è il più focalizzato ed “heavy metal” delle uscite post- “
St. Anger”; difficile pretendere oltre dai quattro adesso, ormai i
Metallica sono come quegli zii che quando erano giovani ti hanno fatto divertire ma invecchiando preferiscono ammuffirsi guardando le partite sul divano salvo poi a volte tirare fuori lo spirito dei tempi che furono e portarti ad un concerto death metal, quindi discreto ritorno e sufficienza ampiamente guadagnata.