Tornano i
Kamelot, con la loro tredicesima fatica discografica, intitolata
The Awakening, realizzata sempre per
Napalm Records, con una line-up ormai alquanto consolidata (arricchita, anche in questa occasione, manco a dirsi, da diversi special guests) in cui spicca, alla batteria, l’unica “new entry” rappresentata da
Alex Landenburg (già drummer dei Mekong Delta, ex-Turilli’s Rhapsody, ex-Axxis ecc...), che va ad aggiungersi al mastermind
Thomas Youngblood alla chitarra e ai soliti
Oliver Palotai (tastiere e orchestrazioni),
Tommy Karevik (voce) e
Sean Tibbetts (basso).
La proposta del nuovo album della band americana poco si discosta da quella degli ultimi anni; si tratta del classico symphonic-power, caratterizzato da opulente orchestrazioni, trame melodiche gradevoli, pregne di romanticismo e malinconia, già evidenti dalle primissime tracce, quali
The Great Divide,
Opus Of The Night, o dalla ballata
Midsummer’s Eve; tutti brani in cui
Karevik cerca finalmente di essere sé stesso, scrollandosi di dosso, l’onnipresente fantasma di Roy Khan, riuscendoci però solo parzialmente (la mancanza del singer norvegese, a livello interpretativo, pesa parecchio ancora oggi, a distanza di anni!).
Il disco prosegue in maniera abbastanza lineare, con qualche lampo qualitativo quà e là, come
Eventide o
The Looking Glass , ma senza regalare picchi emozionali o compositivi degni di nota, al contrario, non mancano invece episodi poco convincenti, dall’andamento eccessivamente scontato, quali
Bloodmoon (che si fa notare per degli sgradevoli effetti moderni di tastiera ed un coro al limite del ridicolo che, forse nelle intenzioni, avrebbe dovuto risultare epico),
New Babylon, oppure l’artefatta ballata intitolata
Willow, che si aggiungono al resto dei pezzi, tutti ben arrangiati e basati su discrete armonie musicali, ma...quanto realmente sentiti, a livello d’ispirazione? Io, francamente, sento “puzza di bruciato”!
Insomma, gira e rigira, il limite dei
Kamelot attuali, è sempre lo stesso: una preoccupante carenza sotto il profilo del song-writing. Una lacuna che i Nostri cercano di colmare con qualche "trucchetto del mestiere", oltre che con le proprie abilità tecniche e la loro enorme padronanza musicale, all’interno di un genere che ormai conoscono a memoria.
Eppure, se si va oltre le linee melodiche che, ripeto, sono piacevoli, per carità, ma suonano anche poco spontanee, e tralasciando le ridondanti orchestrazioni, che ormai, tra l'altro, hanno preso nettamente il sopravvento sulla sostanza, viene da chiedersi: cosa rimane della musica dei
Kamelot? Dov'è finito il cuore?
La fortuna della band di
Younblood in passato, è stata quella di creare dei capolavori, del calibro di Karma, The Fourth Legacy o Epica, in cui le composizioni, assolutamente genuine, erano in grado di colpire l’ascoltatore dritto al cuore, in tutta la loro freschezza, ma soprattutto, non si basavano, come quelle attuali, esclusivamente sulla sfera sinfonica e sul loro tiro melodico (aspetti che comunque, anche allora, erano presenti!), ma, si reggevano su una struttura estremamente robusta ed erano in grado di graffiare, quando ce n’era bisogno, perché scritte con passione! Insomma, regnava un perfetto bilanciamento tra incisività e profondità emotiva, un equilibrio che trasmetteva emozioni vivide e sincere, di cui oggi non è rimasta traccia purtroppo e tutto risulta molto più freddo.
Sinceramente, da artisti del calibro di
Youngblood e soci, è lecito attendersi molto di più, soprattutto dal punto di vista compositivo, che ultimamente lascia parecchio a desiderare e sembra procedere più per forza di inerzia, piuttosto che essere il frutto della freschezza creativa dei suoi interpreti.
The Awakening è un album che non cambierà di una virgola le opinioni degli ascoltatori: chi ha amato i lavori più recenti dei
Kamelot apprezzerà sicuramente anche questo disco ma, se invece, siete dei nostalgici dei “gloriosi tempi che furono”, nemmeno quest’ultima fatica discografica riuscirà ad entusiasmarvi completamente, sebbene obiettivamente, qualche passo in avanti, rispetto al recente passato, sia stato fatto. Tuttavia, potrebbe capitare anche a voi di imbattervi nella stessa “puzza di bruciato” di cui si parlava prima, frutto dell’artificiosità di partiture melodiche forzatamente malinconiche e introspettive, che DEVONO suonare cosi a tutti i costi (e poco importa se non sono spontanee), perché questo evidentemente VUOLE il pubblico della band!
Peccato solo, che i dischi carenti di cuore, difficilmente resistono alla prova del tempo!