Si è spesso portati a credere che gli anni novanta rappresentino il vero “momento tragico” per l’
hard melodico, e tuttavia, soprattutto se ci riferiamo agli albori della decade, è necessario ricordare come l’onda lunga del glorioso periodo precedente garantisse un bel po’ di valorosi protagonisti del genere (Steelheart, Baton Rouge e Damn Yankees, tanto per fare qualche nome).
Tra questi abili propugnatori del “
silk & steel” vanno senz’altro annoverati anche gli
Heavens Edge, figli della “scena di Philadelphia” (la stessa che ha partorito Cinderella e Britny Fox …) e artefici di un pregevole albo di debutto del 1990, prodotto nientemeno che da
Neil Kernon.
Nei tempi recenti abbiamo assistito ripetutamente a ritorni (più o meno) eccellenti, e non sempre del tutto “giustificati”, ma è sufficiente un primo contatto con questo “
Get it right”, la seconda (!) opera discografica (“
Some other place, some other time” del 1998 è una raccolta di
demos e rarità) dei nostri per comprendere come i membri originali del gruppo,
Reggie Wu,
Mark Evans,
David Rath e
Steven Parry, assieme al nuovo acquisto
Jaron Gulino (entrato nel gruppo dopo la dipartita di
George G.G. Guidotti) meritino senza dubbio una cospicua considerazione anche nell’affollato e altamente competitivo
rockrama contemporaneo.
Degno del suo illustre predecessore e al contempo scevro da fastidiosi manierismi nostalgici, l’
album propone un
songwriting variegato e attraente, sostenuto da musicisti in ottime condizioni di forma, a partire da quel
Mark Evans che pur senza essere mai stato un fenomeno della fonazione modulata conosce il “segreto” dell’interpretazione vocale efficace, alternando con sapienza grinta e lusinga emozionale.
La formula espositiva è dunque abbastanza simile a quella propugnata in “
Heaven's edge” e se “
Had enough” rotola nei sensi avvolgendoli con il suo
groove denso e ammaliante, “
Gone gone gone” sfodera una melodia e un
refrain da contagio immediato e “
Nothing left but goodbye” punta su incisive sonorità
bluesy per ottenere il medesimo coinvolgente risultato.
Il clima elegiaco di “
What could’ve been” e quello languido di “
When the lights go down” sono perfetti per (come dicono quelli che ne sanno …) “sbloccare un ricordo” ai tanti estimatori del settore, mentre con “
Raise ‘em up” torna a salire il coefficiente di pulsante vigore, dominato dai ritmi imposti dal duo
Gulino /
Rath e dalle chitarre vorticose di
Wu e
Parry.
Una formula, quest’ultima, declinata in maniera appena più “semplicistica”, che ritroviamo nell’adrenalinica “
Lives (My immortal life)”, seguita dalla maggiore “frivolezza” di “
Dirty little secrets” e da una “
Beautiful disguise” che piace per la gradevole costruzione armonica e per un ritornello ancora una volta piuttosto riuscito.
Con una vaga concessione alla “modernità” denominata
“I’m not the one” (molto piacevole, tra l’altro …) gli
Heavens Edge si congedano dal pubblico di rifermento, dimostrando che il loro
come-back è genuino e ispirato e merita senza dubbio alcuno una doverosa attenzione.