Se qualcosa di buono hanno portato gli anni '90, almeno rispetto alle meraviglie della decade precedente, è sicuramente la riscoperta per il “root rock” più verace. Spogliate le produzioni da eccessi vari, resta l’attitudine genuina, lo spirito ribelle che generò un esercito di band ormai leggendarie, responsabili della codifica definitiva delle “tavole della legge”. Mi riferisco a gente come
Lynyrd Skynyrd,
Bad Company,
Faces, primissimi
Aerosmith,
Allmann Brothers: ci siamo capiti, insomma. Sotto il revival dei 70’s inaugurato dal cosiddetto grunge, un movimento che porta i
Black Sabbath su palmo di mano, iniziano altresì a farsi spazio realtà come
The Black Crowes o
Quireboys, integrali debitori degli
Stones e del
Rod Stewart post
Jeff Beck, seppur capaci di aggiornarne il sound in forma credibile ed appetibile anche ad un pubblico di neofiti.
“
Shake Your Moneymaker” (1990) ed il suo conseguente successo, prima trainato da un singolo irresistibile come “
Jealous Again” e successivamente documentato dalla partecipazione degli stessi The Black Crowes al carrozzone itinerante del
Monsters Of Rock 1991 (capitanato da
AC/DC,
Metallica,
Queensryche), posiziona il gruppo dei fratelli
Robinson tra le priorità delle case discografiche. La storia insegna: occorre sempre un “prime mover” dalle vendite solide per imporre un trend o per dare il via a percorsi retrospettivi. In particolare la
Def Jam American Recordings, etichetta saldamente nelle mani di
Rick Rubin, talent scout e producer dal naso sopraffino che saltella con disinvoltura dalla violenza inusitata degli
Slayer di “
Reign In Blood” al rilancio della carriera di un’icona come
Johnny Cash, non si lascia sfuggire i virgulti più promettenti e talentuosi.
The Freewheelers fanno sicuramente parte di questa categoria e, dopo un omonimo esordio ancora un po’ acerbo, vengono scritturati proprio dall’etichetta di Rubin, che si frega già le mani al pensiero di ripetere il colpaccio The Black Crowes.
Il quintetto prende forma a Los Angeles nel 1989, ed arriva all’appuntamento “caliente” del secondo album ”
Waitin’ For George” nella seguente formazione:
Luther Russell (voce e chitarra),
Jason Hiller (basso),
Christopher Joyner (pianoforte),
Dave Sobel (organo, per lo più Hammond),
John Hofer (batteria). Bastano pochi accordi della straordinaria “
Best Be On Your Way” per entrare in un rock’n’roll mood senza tempo, ed anche se le coordinate stilistiche rimangono ben conosciute, la seriosa credibilità della band travolge ogni ostacolo di “deja-vu” eccessivamente prono e citazionista. Luther Russell canta con la potenza di un
Joe Cocker dei tempi di Woodstock, prima graffiando come una tigre, poi intrattenendo da roco crooner in canzoni come “
What’s The Matter Ruth?” e “
Mother Nature Lady”: quest’ultima, peraltro, contrappuntata da un battente lavoro di pianoforte e battezzata da una sezione ritmica dal moto perpetuo. La produzione di
George Drakoulias è perfetta, e riesce a valorizzare ogni singolo strumento nella maniera più consona e funzionale al credo stilistico del gruppo.
Il ripescaggio dei Lynyrd Skynyrd si trasforma in palese esercizio filologico con “
Ghost Of Tchoupitoulas St.”, ma non mancano nemmeno sferzate di rock più attualizzato, come quello che viene esposto con fiera muscolarità nella frastornante “
My Little Friend”. Il rhythm’n’blues di “
(Chico’s Selling) Maps To The Stars” ed “
Elevator Man” viene egregiamente trattato seguendo la più fedele tradizione, con pianoforte ed Hammond che si rubano il proscenio a vicenda, senza ovviamente dimenticare l’energia sprigionata nei momenti più rock’n’roll, come “
Crime Pays”, “
Walkin’ Funny” ed “
About Marie”.
Dopo una simile prova di forza, su The Freewhelers calerà un silenzio imbarazzante, almeno per quanto dimostrato su “Waitin’ For George”: non sempre la qualità paga evidentemente, qualunque sia il genere affrontato.