Decidere di chiamarsi
Last In Line e suonare “hard-rock moderno” può rischiare di deludere un bel po’ di inguaribili “nostalgici” di
R J. Dio, ma evidentemente a
Andrew Freeman,
Vivian Campbell,
Vinny Appice e
Phil Soussan la cosa non deve interessare più di tanto, dal momento che questo “
Jericho” si allontana ulteriormente dalla deferenza nei confronti del seminale
vocalist italo-americano, per puntare dritto ad un suono adatto anche alle tendenze del
rock duro odierno.
Un
sound, insomma, che partendo da Led Zeppelin e Black Sabbath, ha saputo assorbire suggestioni espressive pure da Blue Murder, Soundgarden, Alice In Chains e Audioslave, arrivando fino a sfidare sul loro terreno artistico realtà contemporanee come Black Stone Cherry, Inglorious e Alter Bridge.
Il passaggio dalla Frontiers alla
earMusic sottolinea le potenzialità anche dal punto di vista squisitamente “commerciale” di una
band di veterani - accompagnata da un cantante ormai pure lui forte di una certa esperienza - capace di scrivere ottime canzoni, dense di
groove e di
feeling, modellate sui chiaroscuri e sulla prestazione di musicisti obiettivamene dotati di grandi qualità tecnico/interpretative.
Sostenuta dalla batteria tonante di
Appice (probabilmente l’elemento più “rievocativo” della proposta del gruppo) la
tracklist dell’opera si snoda tra le pulsazioni liquide di “
Not today satan” e il fraseggio strisciante e incalzante di “
Ghost town”, per poi intridere il clima greve ed ipnotico di “
Bastard son” delle più efficaci inquietudini del
grunge.
L’
hard-blues viscerale e adescante di “
Dark days” e il maggiore respiro melodico concesso a "
Burning bridges”, aprono la strada al
pathos Zeppelin-
esco di “
Do the work” e agli scatti frenetici, invero non particolarmente “impressionanti”, di "
Hurricane orlagh”.
“
Story of my life” sintonizza i
Last In Line sulle frequenze del
radio-rock e dopo la
catchy “
We don't run” tocca a “
Something wicked” distillare le soluzioni soniche più nervose e “avventurose” del disco, confermando la volontà del gruppo di non fossilizzarsi, dando sfogo a estro e creatività.
All’appello mancano ancora “
Walls of Jericho” e la conclusiva “
House party at the end of the world”, a cui il gruppo affida il compito di giustificare la scelta di un
monicker tanto celebrativo, ostentando una notevole classe anche in questa specifica circostanza.
“
Jericho” concentra nei suoi solchi un giacimento aureo di talento e maestria, che con un pizzico di superiore “ruffianeria” potrebbe ambire a visibilità ancor più gratificanti … per ora accogliamo ancora una volta i
Last In Line tra i migliori “decodificatori” della tradizione.
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