Dopo il mezzo passo falso di "Game Over", ecco che con "
Touchdown" gli
U.D.O. si riavvicinano alle buone sensazioni suscitate a suo tempo da "Steelfactory" (2018), che ritengo la miglior realizzazione della creatura di
Udo Dirkschneider nel nuovo millennio. Questo perché a dispetto di un titolo piuttosto
americaneggiante su "
Touchdown" non ci sono concessioni all'airplay e al rock patinato, ma solo assoluta fedeltà alle proprie origini, a quelle sonorità che hanno fatto le fortune prima degli Accept e poi degli
U.D.O. (come quelle di una miriade di altre band): un ruvido, possente, fiero ed anthemico Heavy Metal, forgiato da Weland il fabbro.
La line-up che ha suonato sull'album è praticamente quella delle ultime uscite, anche se va registrato il clamoroso ingresso dello storico bassista degli Accept (ne ha fatto parte dagli esordi sino al 2018)
Peter Baltes. Così, senza nulla togliere al suo predecessore Tilen Hudrap che ha lasciato per motivi di salute, se si tiene conto che, come sound engineer, ritroviamo anche
Stefan Kaufmann (batterista degli Accept dal 1980 al 1994 e che ha poi suonato la chitarra negli
U.D.O. dal 1996 al 2014) questa reunion è un motivo in più per alzare le aspettative nei confronti di "
Touchdown".
Aspettative rispettate. Appieno. "
Isolation Man" è la classica opener tutta scatti e rasoiate, con la caratteristica timbrica di
Udo Dirkschneider sempre abrasiva e che non pare intaccata dagli anni e da tutti quei dischi e tour dai quali il cantante tedesco non si è mai tirato indietro. "
The Flood" scorre più lenta ma non meno animosa della traccia precedente e mette in mostra l'ottimo lavoro dei due chitarristi, mentre con "
The Double Dealer's Club" e con "
Fight for the Right" si assiste ad un tuffo nel passato, un salto indietro nel tempo ai primi anni ‘80, tanto è forte il legame con il vecchio repertorio degli Accept, grazie ad un paio di refrain ammiccanti e ad un gran lavoro da parte di
Andrey Smirnov, con tanto di citazione del "Rondò alla Turca" di Mozart, per un altro cliché che non poteva certo mancare all'appello. Non che l'ammiccante "
Forever Free" o "
Sad Man's Show" si mettano a stravolgere il background della band tedesca, ma quel loro andazzo scanzonato mi ha ricordato alcune cose di "Holy" (1999), e comunque anche qui il guitarwork resta di assoluto livello, forse per lo stimolo dell'aver accanto un veterano come
Baltes, una presenza che pare aver fatto bene anche al giovane
Dirkschneider, dato che
Sven appare più sciolto e dinamico. Tra queste due tracce c'è una "
Punchline" quadrata e spigolosa, nel cantato di
Udo e nel pestare della sezione ritmica, non che "
The Betrayer" non le mandi a dire, da buon episodio non particolarmente veloce ma ben scandito e incisivo.
A questo punto mi sarei aspettato il classico lentone struggente ed evocativo, invece l'appuntamento pare rimandato al prossimo album, infatti, da qui sino alla conclusiva titletrack è uno snocciolare di altri episodi ad alto tasso metallico, trai quali si segnala l'hardeggiante "
Heroes of Freedom" (incentrata sul D-Day) che apre le porte ad un trittico finale all'insegna dell'eccellenza, grazie a "
The Battle Understood", che ha nuovamente nella performance della coppia
Smirnov &
Dammers il suo asso nella manica, a "
Living Hell" che si fregia del chorus più azzeccato dell'album ed infine proprio con "
Touchdown", uno di quei pezzi che nelle loro ultime uscite i Grave Digger hanno inseguito invano, in grado di scorrazzare a velocità improbabili garantendo al contempo un elevato apporto melodico e con l'intera formazione abile nel non perdere colpi e di assestarne di vincenti.
Lo dico o non lo dico? Vabbè... ecco... ebbene sì, con "
Touchdown" gli
U.D.O. hanno fatto meglio dell'ultimo lavoro degli Accept, "Too Mean To Die".
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