"
Sono un fan che dei Dokken coglie ogni finezza,
io li amavo, capite, e sarei ancora all'altezza." (cit.)
Con questa semi citazione colta inizio la mia rece del dodicesimo e mi auguro ultimo album dei
Dokken, il primo almeno ufficialmente senza nessuno della formazione originale, dato che anche nel precedente "
Broken Bones" il batterista
Mick Brown appariva solamente in veste di membro senza effettivamente aver suonato, Brown che ha gettato definitivamente la spugna nel 2019.
Da quel "Broken Bones" sono passati ben undici anni, un'eternità per una band in pista sin dal 1977 e che negli ultimi lustri ha annaspato non poco, tra instabilità di lineup ed una sequela di problemi di salute per il leader
Don Dokken, dalla lotta contro il cancro, operazioni alle corde vocali (che per i cantanti solitamente non è proprio il massimo), semi paresi più o meno confermate in giro per il corpo... insomma, un disastro, ma ricordiamo che il buon Don ha 70 anni suonati e che noi (io di sicuro) dopo una vita frenetica e di eccessi come la sua saremmo defunti o quantomeno paralizzati da un bel pezzo.
Ricordo che nel 2004, in occasione dell'uscita del pessimo "
Hell to Pay", ebbi a disquisire proprio sulla voce di Don che sebbene in studio fosse ancora riparabile fosse già perlopiù andata. Beh, sono praticamente passati altri 20 anni ed oltre a questo i succitati ulteriori problemi.
Se già a quel tempo era un macello, come volete che canti in questo "
Heaven Comes Down"? (per alcuni assai triste questa mania di declamare il passato, come già successo nel 2008 in occasione del moscio "
Lightning Strikes Again")
Canta...poco. Nel senso che è palese che Don non ne abbia proprio più, non riesce minimamente a "spingere", non dico che sia afono ma insomma...poco ci manca, si limita ad accompagnare i brani con molto mestiere, quasi sussurrandoli, e tutto questo chissà in quante takes in studio, figuriamoci a volerli replicare dal vivo.
Lo capisco, per chi ha ancora nelle orecchie i Dokken clamorosi di metà anni '80 questo potrebbe essere un enorme problema e non avrei alcunchè da opporre di fronte al diniego di chiunque restio ad accettare ulteriore materiale da parte del buon Don.
Mi rivolgo in questo caso a tutti gli altri, me compreso, e sarò molto chiaro.
Ad inizio recensione ho scritto "
rece del dodicesimo e mi auguro ultimo album" non solo per risparmiare un'immeritatata agonia di chi ha contribuito a scrivere la storia della musica hard rock, ma anche perchè senza alcun dubbio "Heaven Comes Down" è musicalmente il miglior disco dei Dokken da letteramente una vita.
Vogliamo analizzare nel dettaglio? Facciamolo.
Certamente migliore del pur decente "Broken Bones".
Enormemente migliore dello scialbo "Lightning Strikes Again".
Di quella ciofeca di "Hell to Pay" abbiamo già parlato, di dischi come "
Long Way Home", "
Shadowlife" e "
Dysfunctional" meglio proprio non parlare, e siamo praticamente già a metà anni '90, una vita fa ed appena dopo la meravigliosa progressione anni '80, quando i Dokken erano protagonisti mondiali.
Rimane il buono "
Erase the Slate" del 1999 ma azzoppato da una produzione degna della sacra triade del male
Kevin Shirley / Yngwie Malmsteen / Steve Harris.
A conti fatti, con tutti i problemi vocali di Donaldo Maynardo, "Heaven Comes Down" è il miglior disco dei Dokken dopo i capolavori storici, e scusate se è poco. Bastano i primi accordi dell'iniziale "
Fugitive" a mettere i brividi, con quelle dinamiche e delay che fecero gola a tutti, persino a band apparentemente inossidabili come i tedeschi
Warlock durante la transizione "
Hellbound" --> "
True As Steel", basti pensare a brani come "
Love in the Danger Zone" per rendersi conto di quanto i Dokken (certo, con
Lynch alla chitarra) dettarono legge in quegli anni d'oro.
Tuttavia
Jon Levin, tanto per rimanere in tema
Doro (suo il lavoro maestoso in "
Force Majeure") compie in questo album un lavoro enorme tra ritmiche e squisiti assoli, per un totale di dieci brani senza NEMMENO un filler, ripeto, dieci brani tutti valissimi, con numerosi highlights, come la splendida "
I'll Never Give Up", quasi una dichiarazione d'intenti, la drammatica "
Saving Grace", la già citata opener "
Fugitive", il secondo singolo "
Gypsy", la nostalgica "
Lost in You", tutto funziona a meraviglia, i neo-entrati
McCarvill e
Zampa fanno il loro ma in maniera piuttosto ordinaria...certo, c'è quel "problemino" della voce, ma vi dirò che dopo numerosi ascolti non ci si fa caso più di tanto, vista la bontà dei brani e la bilanciatissima produzione.
Poi certo, se non vi sono mai piaciuti i Dokken non sarà questo canto del cigno a farvi cambiare idea, e se siete a loro vagamente interessati ovviamente sarete rimandati ad ascoltare i primi quattro capolavori, ma per i fan della band californiana, magari delusi da tanti album tendenti dal brutto all'inutile, questa potrebbe essere la zampata finale che sancisce in maniera decisamente meritevole e gloriosa una carriera pregna di significato e di sogni.
Ed io voglio sognare ancora una volta.
Grazie Don, adesso giunge il momento di lasciarci ma lo faremo con le stesse emozioni che più di 40 anni fa diedero inizio alla nostra storia.