I
Kardang suonano “classic rock” e il fatto che siano norvegesi è una semplice notazione geografica da associare a un genere musicale ormai completamente apolide.
Un suono canicolare, polveroso, ricreativo, che affonda le sue radici nel
blues e sconfina nel
country, non aggiungendo nulla di fondamentale a quanto già proposto da AC/DC, Cinderella, Drivin' N' Cryin', The Georgia Satellites e The Quireboys, tra gli altri.
E allora per quale ragione non riesco a definire “
Rizky biznizz” un “inutile plagio” e lo ascolto già da parecchio tempo con notevole gaudio e soddisfazione?
Beh, innanzi tutto perché i nostri conoscono piuttosto bene la materia e sanno scrivere e interpretare canzoni parecchio vibranti ed emozionanti, a cui aggiungono all’occorrenza un felice tocco vagamente “modernizzato” e
mainstream (qualcosa tra Goo Goo Dolls, Counting Crows e il
Kid Rock “rootsy”), rendendo l’opera perfetta, per esempio, per accompagnare un viaggio randagio e spensierato (magari anche solo “immaginario”).
Brani all’apparenza “semplici”, poco sorprendenti e però molto utili a staccare dalla
routine quotidiana, rilassarsi, ricaricare le “batterie” o scacciare i cattivi pensieri, incuranti del fatto che da questi solchi non esce nulla di “nuovo”.
Rimanere insensibili di fronte alla melodia ardente e pastosa di “
Change of heart” (con un pizzico di
Bryan Adams nell’impasto sonico) è francamente abbastanza difficile, così come è altrettanto arduo non apprezzare la voce di
Chris Williams, caratterizzata da un timbro sabbioso e assai comunicativo, davvero adeguato alle varie sfumature del disco.
Sentitelo, a conferma di quanto appena affermato, nelle febbrili sequenze di “
Don’t let me drive” o nello scanzonato clima “australiano” di “
Man eater” e sarà facile comprendere come il cantante incarni in maniera propizia il ruolo di
shouter energico e passionale.
“
We’re all gonna be alright” è un tipico pezzo da vagabondaggine lungo la
Route 61 e se “
Scandinavian girls” potrebbe essere il resoconto di
Tom Keifer sulle bellezze della
Terre del Nord (e non stiamo parlando dei fiordi o dell’aurora boreale …), la
title-track dell’albo è un inno che attiva in maniera incontrollata il battito del piede e la riproduzione del
refrain.
“
When the water runs dry” e la bella “
In the end” aggiungono un pizzico di “ruffianeria radiofonica” alla questione e mentre “
Dream forever” affronta la delicata pratica della “ballata elettroacustica” con un certo buongusto, a “
Hey everybody” è affidato il compito di riportare il programma sui sentieri del
boogie-rock, con annesso tutto il suo carico di genuina orecchiabilità.
Che cosa manca a un disco di questo tipo? A chi ha risposto un tocco “sudista” comunico che “
Down to the river” provvede a colmare la lacuna, completando un percorso sonoro di certo “revivalistico” e tuttavia emotivamente evocativo, coinvolgente e rinfrancante, di quel tipo che definire
intramontabile non è per niente iperbolico e pretenzioso.
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