Erano in tanti ad attenderla con ansia, e credo che questo possa considerato un importante “segnale” a favore di un evento agognato ormai da troppo tempo.
Di cosa sto parlando? Della “riscossa” dell’
hard melodico statunitense, un capostipite ormai da un po’ in grande difficoltà nei confronti del suo “discepolo” scaturito nel
Vecchio Continente (soprattutto nelle
Terre del Nord …), capace di mutuarne i “sacri dogmi”, rielaborarli e poi conquistarne l’egemonia artistica.
Gli artefici di tale nitida avvisaglia di “rivalsa” si chiamano
Station e, in realtà, è dai primi anni duemila che promulgano (tra l’altro in maniera del tutto indipendente) da
New York City la loro visione del genere, molto fedele al prototipo “originale”, ma finora mai così efficace dal punto di vista espressivo.
Al quinto tentativo sulla lunga distanza, il gruppo riesce finalmente a concentrare i suddetti principi fondamentali del settore in un
songwriting maturo e incisivo, degno di una “storia” tanto seminale e leggendaria.
“
And time goes on” si dimostra, infatti, un
album davvero coinvolgente e appassionante, in grado di sfruttare ad arte un
modus operandi tutt’altro che “innovativo” e tuttavia assai persuasivo, in cui convivono felicemente la tensione delle melodie, la grinta delle chitarre e il battito pulsato delle ritmiche.
Tante le sfumature presenti in un programma che esordisce con la raffinata “aggressione” perpetrata da “
Over & over” e “
If you want me too” (qualcosa tra Kiss, Ratt e Def Leppard), per poi abbassare i toni con “
A little bit of love”, un gioiellino di tipica spigliatezza
adulta yankee, vivace ed evocativo come da (splendida) tradizione.
Al medesimo culto appare immolata la crepuscolare “
Close my eyes”, intrisa di quella capacità adescante diventata modello per innumerevoli formazioni di ogni estrazione geografica, mentre con le cadenze sensuali di “
Touch” e il crescendo sincopato di "
No reason”, gli
Station offrono all’astante due esempi di radiose rievocazioni dei migliori Unruly Child.
Dopo la ballata
soulful “
Locked away” (una “roba” che potrebbe addirittura piacere agli estimatori di Prince …), con “
Something in between” è oltremodo appagante immergersi in un’atmosfera notturna e metropolitana, irradiata dalle luci dei
neon, per poi, all’alba, ritrovarsi a solcare gli ariosi panorami californiani evocati da “
Better off alone” (da consigliare ai
fans di Night Ranger e Nelson) e dissipare ogni malinconia residua grazie al
refrain di “
Around the sound”, perfetto per generare una tempestiva forma di lieto contagio sensoriale.
Com’è noto, però, il
melomane è in fondo un inguaribile romantico ed ecco crogiolarsi nel languore che alimenta la
title-track è sempre un bel modo di completare un ascolto così appagante da richiedere un’immediata reiterazione.
“
And time goes on” è un prodotto musicale di elevata caratura, che pone gli
Station in prima linea nell’agguerritissima competizione melodica internazionale, a cui gli
USA non possono proprio mancare - e non solo con i loro inossidabili “decani”- per blasone e rango.