La narrativa del
rock n’ roll è ricca di vicende familiari, con particolare risalto per le “fratellanze”.
Van Halen, Oasis, The Black Crowes, AC/DC, Sepultura, … sono solo i primi esempi che mi vengono in mente di coppie di fratelli impegnati nelle medesime compagini musicali, mentre per avvicinarsi al profilo dei teutonici
Sons Of Sounds, bisogna tirare in ballo i miei adorati Mama's Boys o i Kings of Leon.
Eh già, perché i promotori di questa formazione sono i tre fratelli
Beselt, impegnati fin dall’infanzia a condividere una bruciante passione per l’
hard n’ heavy, tanto da giungere oggi, con il supporto di
Marc Maurer (considerato a tutti gli effetti un membro “adottivo” della famiglia), al loro settimo
full-length.
“
Seven”, questo il didascalico titolo dell’opera (e sette sono anche i brani che la compongono), offre una trentina di minuti di musica intrisa del tipico
power tedesco, a cui però la band decide di applicare alcune interessanti variazioni soniche, atte a rendere la proposta meno prevedibile.
Nulla che possa consentire di conferire al disco un premio all’innovazione, ma comunque piace, ad esempio, come i
Sons Of Sounds trattano la materia nell’
opener denominata “
Sound of hope”, una melodicamente intrigante disquisizione sonora dipanata su dogmi espressivi tipicamente Helloween-
iani.
Il
vocalist Roman si dimostra un valido emulo di
Andi Deris e
Tobias Sammet anche nella successiva “
Alive” (che in realtà inizia come un po’ come una versione da
Octoberfest di “
Smooth criminal” …), altra gradevole divagazione (compreso un
break quasi
reggae) su temi noti, mentre con “
Ghost” lo scenario diventa più oscuro e melodrammatico, rivelando le capacità della
band di variare con disinvoltura ed efficacia il proprio schema espressivo.
A conferma di quanto appena affermato ecco che “
My name” si avventura con esiti molto positivi in irrequieti terreni
prog n’ metal n’ blues e “
Diamond” sforna addirittura un arrangiamento teatrale tra
Alice Cooper e Avantasia.
“
Valley of the damned” ritorna su sentieri maggiormente possenti e rapaci, mescolando Primal Fear e gli immancabili Iron Maiden e a “
End of the road” è affidato il compito di porre fine alle ostilità rivelando il lato riflessivo, evocativo e bucolico della dinastia
Beselt (
& C.), piuttosto abile nello sviluppare pulsanti sinergie tra percussioni, basso, chitarra acustica e voce.
Che si tratti di una questione genetica (come dichiarò
David Lee Roth, quando decise di puntare sui
Bissonette …) o di motivazioni meno “scientifiche”, i
Sons Of Sounds sono un gruppo solido, compatto, in grado d’innestare idee abbastanza interessanti nel tessuto connettivo di un canovaccio stilistico radicato e rigoroso … speriamo che l’armonia “fraterna” (non sempre duratura, nella storia del
rock …) consenta loro future elaborazioni sonore ancora più sorprendenti e peculiari.