Nirvana, Alice In Chains (quelli veri …) e Soundgarden non ci sono più, divorati dagli eccessi, dalle pressioni del successo e della “moda”, e ormai sono rimasti solo i Pearl Jam ad incarnare la primigenia rappresentanza del convulso e celeberrimo universo del
grunge.
E allora, che cosa resta oggi nel 2024 di quella dirompente forma di
rock n’ roll, capace di mescolare generi sonori tradizionalmente separati (
heavy metal,
punk, psichedelia, …) e di riavvicinare la musica popolare al rumore delle chitarre e al senso di antagonismo?
Beh, checché ne dicano i (tanti) attuali detrattori, qualcosa di quella “rivoluzione” sociale, musicale e culturale (prima ancora che “mercantile”) è rimasto nel cuore e nell’animo di numerosi artisti, tra i quali spiccano quelli in grado di proporre una trasposizione rielaborata di quei suoni, guardando con grande ammirazione e devozione ai modelli originari senza per questo finire per restituire una versione “annacquata” dei suddetti.
Tra gli emergenti italiani più interessanti del settore vanno senz’altro enumerati i
Rikochet, che con Il loro albo d’esordio “
Kinaesthesia empathia” (pubblicato grazie alla sempre attenta
Andromeda Relix) dimostrano di saper trattare la materia in maniera abbastanza matura e coinvolgente, interpretando i dogmi del cosiddetto
Seattle sound con innato buongusto e considerevole cultura.
Una conoscenza che non si limita, tra l’altro, ad attingere dalla “sacra quadrimurti” del genere, e aggiunge alla galleria dei numi tutelari anche Stone Temple Pilots, Afghan Whigs e i nostrani Karma (ispirazione che affiora, ad esempio, nel tocco “esotico” concesso alla suggestiva “
Not just yet”), per poi spingersi addirittura a sconfinare in territori U2-
eschi (in talune sfumature vocali di
Poly e in brani come “
Feel life” e “
Empirical break”), il tutto sempre gestito con una certa classe e sensibilità.
Otto brani che dimostrano dunque l’abilità di scrittura ed esposizione al di sopra della media di un gruppo che solo raramente lascia che l’attenzione dell’astante tenda vagamente ad affievolirsi (“
My own private intersection”) e compensa tali momenti con canzoni parecchio riuscite (tra i miei
best-in-class dell’opera segnalo il fervore
made in Nirvana / Bush di “
Red velvet”, il
groove pulsante di “
Rikochet”, la
Dulli-ana “
Unknown consequences” e il lirismo “cinematografico” di “
Missing ring”).
Dopo la “sbornia” delle icone “generazionali”, della fama, delle passerelle, delle vendite milionarie e delle relative vicende autodistruttive, che sia il ritorno nell’
underground la vera “salvezza” per un certo tipo di musica
rock?
Se così fosse, in qualunque modo vogliate chiamarla, sarà bene tenere d’occhio formazioni come i
Rikochet, a cui non mancano né le capacità e né le motivazioni per contribuire fattivamente all’adempimento dell’ambizioso compito.
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