I
Lionheart nascono nel 1980 e la loro natura di supergruppo “figlio” della
NWOBHM (la prima formazione prevedeva l’ex Maiden
Dennis Stratton,
Steve Mann di fama Liar / Tytan,
Frank Noon, coadiutore dei Def Leppard, l’ex Wildfire
Rocky Newton e l’ex Tygers of Pan Tang
Jess Cox) aveva fatto fremere più di un
fan di quella splendida
stagione metallica, probabilmente poi (almeno un po' ...) deluso dal fatto che per il brillante esordio (“
Hot tonight”, con
Chad Brown alla voce e il
session-man Bob Jenkins ai tamburi) il gruppo britannico avesse deciso di affidarsi all’
AOR, facendosi addirittura produrre da
Kevin Beamish, reduce dal clamoroso successo con i REO Speedwagon.
Il disco, nonostante sia un piccolo “classico” dei suoni
adulti in salsa albionica, non otterrà i risultati sperati e bisognerà attendere il 2016 per sentire di nuovo parlare del gruppo, riunitosi per partecipare al Rockingham Festival di Nottingham con
Lee Small (Shy) al microfono e il vecchio sodale
Clive Edwards (Pat Travers, Uli Jon Roth, Wild Horses, UFO) alla batteria.
L'apprezzata apparizione convince i
Lionheart a ritornare anche all’attività discografica, intento concretizzato con “
Second nature” (2017), “
The reality of miracles” (2022) e oggi con “
The grace of a dragonfly”, sotto l’egida della
Metalville Records.
Il nuovo
full-length ci restituisce un gruppo in ottime condizioni di forma, fatalmente “maturato” rispetto agli “spensierati” esordi, ma capace di riproporre i suoi tipici impasti vocali sebbene in una forma più melodrammatica e solenne.
La scelta di incentrare l’albo sulle vicende della Seconda Guerra Mondiale, rendendolo tanto un “manifesto” contro la guerra quanto la celebrazione di tutti quelli che hanno combattuto per la nostra libertà, ha verosimilmente contribuito al clima dell’opera, aperta dalle tastiere tragiche e dalle armonizzazioni enfatiche di “
Declaration”, seguite dalla pulsante
grandeur della magnifica “
Flight 19”, da considerare il primo “scossone” emotivo della scaletta, anche grazie all’eccellente prestazione di
Small.
“
V is for victory” allenta leggermente la “tensione”, puntando su una melodia e su un
refrain “a presa rapida”, mentre “
This is a woman's war” mescola con un pizzico di eccessivo manierismo passionalità ed
epos.
Si continua con “
The longest night”, un
hard-rock barocco (una specie di Deep Purple
meets Queen) piuttosto efficace e anche la ballata “
The eagle's nest”, sebbene abbastanza canonica nella struttura armonica, riesce a fare breccia nei sensi dell’ascoltatore appassionato.
Andiamo comunque decisamente meglio con l’energica sintassi di
bluesy-AOR concessa “
Little ships”, con l’enfasi pastosa di “
Just a man” e con l’incedere brioso e adescante di “
UXB”, musicalmente tutt’altro che una “bomba inesplosa”, come il titolo del brano vorrebbe suggerire.
il programma ha, infine, a beneficio di tutti i cultori della melodia magniloquente, ancora in serbo una suggestiva
title-track, per poi affidare al breve sinfonico epilogo “
Remembrance, praying for world peace” un'esortazione, purtroppo, di sempre più impellente attualità.
"
The grace of a dragonfly" appare quindi come l’ennesima conferma della solidità artistica della “vecchia guardia” e farà felice chi considera i
Lionheart una di quelle formazioni che grazie al “nuovo” corso artistico può recuperare quella meritata considerazione sfuggitale in passato.