La musica, lo sappiamo bene, vive continuamente di corsi e ricorsi storici, ma francamente non mi sarei mai aspettato che nel 2024 ci sarebbero state così tante formazioni musicali “emergenti” con lo sguardo fisso al “glorioso” passato del
rock n’ roll.
Una consistente congrega in gran parte assai abile e preparata, e se valutiamo il “fenomeno” nella sua interezza, confrontandolo con tanta “musicaccia”
mainstream che ci circonda e che spesso viene definita addirittura “geniale”,
beh, non possiamo che essere felici di tale nostalgica forma d’attrazione.
A questo punto, però, è anche necessario tentare di distinguere chi, tra questi
retro-rockers (che brutta definizione …) merita in maniera più spiccata la nostra attenzione, in virtù di un approccio non solo dogmatico e “imitativo”.
Tra questi, mi sento di inserire di diritto i canadesi
Freeways, già trattati su queste stesse colonne ai tempi del debutto “
True bearings” e oggi tornati sulla scena discografica grazie alla
Dying Victims Production.
Come il suo predecessore, “
Dark sky sanctuary” si segnala per la “disarmante” naturalezza con cui gli insegnamenti di Thin Lizzy, Diamond Head, Blue Oyster Cult, Bachman-Turner Overdrive e Triumph sono assimilati ed inseriti all’interno di una manciata di canzoni capaci di “entrare in circolo” in maniera istantanea e abbastanza duratura.
Nessun “virtuosismo” specifico, dunque, né di carattere tecnico e né di natura compositiva, ma un’innata capacità nel trattare la materia con qualità e competenza, lavorando in maniera davvero efficace sulle costruzioni melodiche e sul “contagio” emotivo di sonorità note e non per questo poco coinvolgenti.
Capitanati dalla vocalità persuasiva di
Jacob Montgomery, i quattro
canucks avviano l’operazione di soggiogamento del loro secondo
album attraverso le note avvolgenti di “
Forever protected”, per poi piazzare, con “
Can’t deny destiny” e "
Fortune`s favourite” due delle più riuscite “interrogazioni” sul tema
“impatto dei BOC sul rockrama contemporaneo” sentite negli ultimi tempi.
Le “sgommate” di basso e le
twin-guitars di “
Give em the gears” trasferiscono il clima sonoro in piena
NWOBHM (qualcosa tra Diamond Head e Saxon), mentre con la
title-track i toni tornano ad essere crepuscolari e adescanti, impreziositi da un ritornello facilmente memorizzabile.
L’
hard-blues cangiante di “
Travelling heart” dimostra che il gruppo possiede una cultura sufficientemente ampia e variegata, la stessa che emerge altresì nell’andatura incalzante e obliqua di “
Private myth” e nella conclusiva “
Cracked shadow”, dove sono Thin Lizzy, Bang e Wishbone Ash a rappresentare i “buoni maestri” della situazione.
I
Freeways non riscrivono le consolidate regole di un “gioco” che però conoscono bene e a cui partecipano con profitto e autenticità, grazie ad un
DNA artistico che non deluderà chi ama questi “vecchi” suoni, alla luce dei fatti, evidentemente, davvero intramontabili.
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