Lo confesso … con i
Seasons of the Wolf mi ero fermato al 1999, quando l’uscita di “
Lost in hell” attivò tutti i miei sensori
rockofili dedicati alle formazioni “strane” o quantomeno non allineate.
Il loro approccio alla musica, che spaziava tra
US power-metal,
NWOBHM,
prog e
dark-sound si poteva infatti considerare per l’epoca una rarità, insensibile alle mode e alle novità sonore ventilate dalla scena di riferimento.
Suggestioni che, ed ecco la seconda ammissione, finirono fatalmente per “contagiare” anche il sottoscritto, inducendolo a trascurare la successiva produzione discografica di un gruppo che senza troppi clamori e con talune modifiche di
line-up, giunge oggi al suo sesto
album.
Fin dal primo contatto con “
Orna verum” appare chiaro che i Floridiani non hanno abiurato la loro originale vocazione musicale (risultando una sorta di fusione tra Omen, Cirith Ungol, Judas Priest, Uriah Heep e Saracen …), anche se li ritrovo leggermente più “pacati” di come li ricordavo, con la voce di
Robert Baxter (uno che ama molto, forse persino troppo, il “vibrato” …), meno “rapace” di quella dello storico
Edward Waddell.
Una registrazione ovattata (e un po’ squilibrata all’interno del programma stesso) rende il clima ancora più
vintage ed è sufficiente l’
opener “
Reignite the sun” per trovarsi catapultati nella scena
metallica di “qualche” anno fa, caratterizzata da quella istintiva visceralità che tanto piace agli estimatori della
NWOTHM.
I
Seasons of the Wolf, però, a differenza di qualche loro collega di formazione più recente, non simulano, soprattutto nell’attitudine, e appaiono parecchio credibili e coinvolgenti quando si producono in brani dal vivido carattere evocativo come “
Stella magnetica” e “
Hopes and fears”, o laddove affidano alla ballata “
Rain” (con qualcosa dei Crimson Glory nell’architettura sonora) tutto il loro crepuscolare afflato espressivo.
“
Supernatural” e "
Mortuary man” esplorano il lato maggiormente oscuro, beffardo e sinistro (alla maniera di certi Ripper) dei nostri, mentre “
Rise up” sposta il
focus dell’opera su sciamanici e siderali territori
hard-rock e “
Black swamp gypsy” arriva addirittura a citare i The Doors nel suo incedere strisciante, con il versatile tastierista
Dennis Ristow che, per l’occasione, si trasforma in un valente discepolo di
Ray Manzarek.
Il breve strumentale etereo e
folkeggiante “
Exordium” sfocia nell’enfasi vagamente Jethro Tull-
esca di “
Return of the king” e nell’atmosfera elegiaca e drammatica di “
Coat of arms” (dove sono i Iron Maiden a fare capolino …), per poi lasciare a “
Once more unto the breach” il compito di sollecitare il consenso dei cultori dei (primi) Judas Priest.
Con il loro
DNA artistico fatto di
hard n’ heavy variegato e intenso, i
Seasons of the Wolf si allineano con legittimità e peculiarità proprie alla brama di “classicismo” della scena contemporanea … tra tante esibizioni magari formalmente migliori e tuttavia spesso troppo imitative e “posticce”, la talentuosa autenticità di “
Orna verum” merita rispetto e considerazione.
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