I tedeschi
Servants To The Tide rientrano fra quella schiera di band che subito mi saltarono subito all'occhio quando, tre anni fa, uscirono con il loro debut album omonimo, un doom/epic metal fiero, pieno di passione, capace di guardare con orgoglio al passato ma riuscendo a non tramutare il tutto in una sterile operazione nostalgia. Guardando alla lezioni lasciate da Doomsword, Candlemass, While Heaven Wept, Wheel, ma anche ai più recenti Atlantean Kodex, i tre musicisti hanno saputo aggirarsi con destrezza nel creare una loro identità, e creandosi un nome che, negli appassionati del genere, avrebbe fatto sperare loro in un nuovo full length in un periodo relativamente breve.
Passa il tempo, ed è dunque tempo di vedere se con
'Where Time Will Come To Die' le aspettative sono state confermate. Di differenze con il lavoro precedente ce ne sono, ancor prima della musica, nella lineup che da tre membri passa a cinque, con l'innesto di
Katharina Großbongardt alle chitarre e
Sören Reinholdt al basso, aggiunte che nelle varie canzoni del disco si fanno sentire, andando a creare un sound molto più compatto rispetto all'album precedente, ma anche a livello di songwriting ci sono delle piccole differenze. C'è prima di tutto una diversità tra la durata dei trentacinque minuti di
'Servants To The Tide' e i cinquanta del qui presente lavoro. Non ci sono, come visibile a sinistra nella tracklist, più canzoni, ma la band ha deciso di puntare su un epic metal molto più incisivo, e cercando di creare una storia, un concept, che ruoti attorno alla creazione della Terra, sin dal Big Bang, fino alla sua distruzione, fredda e gelida come la morte.
Band photo provided by No Remorse Records for free promotional use [Copyright @Kerstin Rubinstein]
E il risultato finale, va detto, è stato decisamente centrato in pieno. Punto forte dell'intero disco è la voce calda, possente e carismatica di
Stephan Wehrbein, che per un certo senso a tratti mi ha ricordato quella di Jake Rogers dei Visigoth, capace di dare quel giusto pathos ai vari pezzi, come su
'White Wanderer', dall'incedere inizialmente cadenzato, e che mostra come il singer tedesco si sappia destreggiare con una facilità da far paura nei diversi momenti, sia in quelli dal sapore più drammatico che in quelli più energici e che necessitano di una spinta in più, come poi replica sull'opener
'With Starlight We Ride', dal riff che potrebbe esser definito come troppo banale, ma con una passione che trasuda da ogni nota che farebbe impallidire chiunque, e dove anche i vari cori
"oooh" non stonano o risultano tamarri, anzi donando una maggiore solennità. Risuona forte il tributo ai Candlemass in
'Sunrise In Eden', anche qui dalla struttura semplice, ma evocativa al massimo e che nei suoi otto minuti di durata non fa sentire per nulla un qualsivoglia senso di pesantezza o noia. Ed è questo un ulteriore elemento che gioca a favore di questo disco, ogni tassello è al posto giusto, e sensazioni come la monotonia, la ripetitività, o la piattezza non emergono mai. La doppietta finale
'Towards Zero' / 'Where Time Will Come to Die' invece, dove la prima è suonata al pianoforte e dove ancora la voce di
Stephan, coadiuvata da leggeri e delicati assoli di chitarra a farla da padrone, e la seconda che si divide in una parte iniziale doom e la seconda che aumenta la velocità per poi terminare come era iniziata, chiude in bellezza un album che, se ignorato, verrebbe compiuto un peccato mortale.
Niente cosplay metal, niente marketing e battage pubblicitario fine a sè stesso, qui parla la musica, e se ci fosse giustizia a questo mondo, dischi del genere sarebbero più acclamati ed elogiati. Ma la bellezza dell'underground è anche andare a scoprire altro, uscire dalla comfort zone, talvolta sbagliando e incappando in uscite che non rientrano nei nostri gusti, e talvolta trovando album capaci di regalare quella "magia". Ecco,
'Where Time Will Come To Die' è uno di quelli.