Trattare il terzo disco dei
Silver Horses è per il sottoscritto fonte di doppia soddisfazione.
Innanzi tutto, perché “
Electric omega” è un lavoro eccellente e poi perché mi fornisce l’occasione di riparlare dei Mantra, un gruppo straordinario, che purtroppo ha “raccolto” molto meno di quello che avrebbe meritato.
Vedere nuovamente riuniti
Jacopo ‘Jack’ Meille,
Gianluca Galli e
Andrea Castelli, già “agitatori” di quella intrigante applicazione della nobile lezione impartita da Free, Bad Company e Led Zeppelin, è, per chi aveva mal accolto la sua sparizione dai
radar sonori, motivo di grande compiacimento e curiosità.
Proprio la nascita dei
Silver Horses,
band fondata da
Galli con il prestigioso supporto di
Tony Martin (e ricordiamo altresì il fattivo contributo di
Andrea Ranfagni), ha rappresentato un bel modo per “consolarsi” e anche seguire con ammirazione le vicende di
Meille alla blasonata corte dei Tygers of Pan Tang non ha fatto altro che confermare le spiccate qualità espressive di un cantante che meritava palcoscenici ampi e importanti.
Con la conferma del brillante apporto ritmico di
Matteo ‘Bona’ Bonini, la “nuova” incarnazione dei
Silver Horses sembra proprio voler riprendere la parabola artistica interrotta con
“I 4 D” e la presenza nella scaletta di “
Electric omega” di svariate rielaborazioni dei pezzi dei Mantra consolida con forza tale impressione, convalidando al contempo il valore di un repertorio che poteva e può tranquillamente rivaleggiare ad armi pari con quello di celebrità del calibro di Rival Sons, The Answer, Dirty Honey e Greta Van Fleet.
Insomma, il disco risulta veramente coinvolgente, e senza distinzioni tra il “passato” e il “presente” di questi favolosi musicisti, sa come ammaliare profondamente gli estimatori dell’
hard-rock “classico” che conoscono la differenza tra “ispirazione” e “riproduzione”.
Ed ecco che pur rispettando pienamente i sacri dogmi del genere, la
band sciorina una raccolta di canzoni palpitanti e avvincenti, a partire dal
groove irretente di “
Looking so good” e proseguendo con la melodia avvolgente e pulsante di “
Bad of bones”, una sorta di
jam session tra
Zeps e Foo Fighters.
Il clima pastoso e intenso di “
Endless circle” evidenzia come, grazie a cultura, competenza e
feeling, si possa ancora omaggiare efficacemente il
Dirigibile più famoso del
rock, mentre in “
Hafa café” la celebrazione si arricchisce pure dei Rainbow più “esotici”, il tutto reso senza l’ombra di lassistici compiacimenti.
La magia elettroacustica di “
The big wave” (da consigliare anche ai
fans dei Pearl Jam) continua ad avere una presa emotiva incredibile e se cercate qualcosa di leggermente più viscerale ecco arrivare “
Black hawk dawn” e “
Family man” con la loro emozionante carica
hard-blues.
Le rarefazioni
folk-rock di “
Somewhere sometimes” e della ombrosa “
The grand design”, il tocco
electro-funky (vagamente alla INXS) concesso a “
Sandcake” e la cangiante “
Trapped in the woods” (non lontanissima da certe cose del
Plant solista) aggiungono supplementare fascinosa varietà ad un programma che non perde un’oncia della sua capacità di suggestione né nell’enfasi adescante di “
My lady in red” e né in “
Time and space”, con il basso di
Castelli in bella evidenza all’interno di una struttura musicale capace di trasportare la “storia” del settore dritta nel terzo millennio.
Sarebbe bello, oltre che sacrosanto, a questo punto, che il ritorno dei
Silver Horses, attirasse l’attenzione di tutti (nessuno escluso,
eh …) quelli che nutrono un’indissolubile passione per il
rock “vecchio stile” suonato e interpretato con classe, perizia e anima, consentendo così ai nostri di proseguire ulteriormente in quel percorso espressivo iniziato già qualche tempo fa e in grado di riservare, ne sono certo, tante altre vigorose e benefiche
good vibrations.