Il 1989 fu un anno particolarmente florido per il cosiddetto
hair-metal, laddove i debutti di Danger Danger, Vain, Babylon A.D. e Skid Row, si mescolavano alle nuove pubblicazioni discografiche di “gente” come Aerosmith, Mötley Crüe, L.A. Guns e Faster Pussycat.
I tratti dell’imminente “implosione” del genere non erano ancora così evidenti e le
major labels si spingevano ad espandere la loro spasmodica ricerca dell’ennesima
new sensation fino alla
Vecchia Europa.
E così capita che la Atlantic Records scovi a Bonn un quartetto di
bad boys con gli attributi fumanti, capitanati da un cantante americano,
Tom Bellini, capace di far convivere nella sua laringe il graffio di
Kevin DuBrow e la sofisticata e affilata vocalità di
Danny Vaughan.
La
band si chiama
Vamp e incide il suo albo d’esordio, dal singolare titolo “
The rich don't rock”, giovandosi della prestigiosa produzione di
Tony Platt (a ulteriore testimonianza di quanto l’etichetta credesse nelle possibilità di successo della sua “scoperta” …), uno che aveva già dato prova della sua perizia lavorando, tra gli altri, con Led Zeppelin e AC/DC.
L’
album è davvero esplosivo, in grado di esibire l’incontenibile vitalità di una formazione musicale che non temeva il confronto con certi “consanguinei” d’oltreoceano (Ratt, Dokken, Icon, Autograph, Lillian Axe, …), dimostrando di saper trattare con uguale padronanza e ispirazione la raffinata potenza del
class-metal, la capacità di coinvolgimento dell’
arena-rock e l’abrasiva e sfrontata energia dello
street.
“
Heartbreak, heartache” conduce l’astante, fin dall’atto d’apertura dell’opera, in un universo sonoro fatto di chitarre taglienti, ritmiche pulsanti e cori accattivanti e per continuare l’esplorazione non c’è nulla di meglio che affidarsi alla melodia intrigante di “
Like I want” (scritta con
Bernie Marsden), per poi passare alla crepuscolare elettricità profusa dalla
title-track, non lontana da certe cose dei Great White.
L’incalzante e adescante struttura armonica di “
Love game” mette ancor più in evidenza le notevoli qualità espressive di una compagine che intride di ammaliante intensità
hard-blues la successiva “
Renegade” e poi carica di possanza ritmica “
All nite”, concedendo ai vigorosi tamburi di
Dicki Fliszar un piccolo momento di gloria narcisistica.
Dopo tanta grinta viscerale, concedersi una pausa in cui accentuare il coefficiente melodico, è certamente da considerare una scelta opportuna, soprattutto se tale
break si chiama “
Lonely nights” e riesce a non sdilinquire un programma che con le
sciccose cromature metalliche di “
Stand by me” e l’epica e tellurica “
Bleeding” riprende a scolpire i sensi con le peculiarità di un suono granitico ma mai fine a sé stesso.
E sempre a proposito di approcci sapientemente istintivi e grintosi, ecco arrivare "
Talk is cheap”, una sorta di
jam session tra Great White e Quiet Riot, la rissosa “
Shout”, da consigliare ai
fans dei Mötley Crüe e “
Why” che ha le caratteristiche giuste per sedurre gli ammiratori di Keel e W.A.S.P.
Riscontri commerciali inferiori alle (elevate) aspettative indussero l’Atlantic a interrompere la collaborazione professionale con i
Vamp, concludendo prematuramente la carriera artistica di un gruppo che così non poté verificare se il controverso
proclama “
The rich don't rock” fosse corretto … di certo è lampante che nel momento in cui sgomitavano per cercare di affermarsi, i nostri sapevano
rock-are alla grande, e riscoprirlo (il disco, tra l’altro, è stato ristampato sia dalla Bad Reputation e sia della Divebomb Records) è una raccomandazione che mi sento di estendere a tutti gli estimatori del settore.