Viviamo un’epoca in cui i
side-project e le
all-star band razionalmente non “impressionano” più nessuno e diventano spesso solo occasioni per ampliare le possibilità di sbarcare il lunario in un mercato discografico di riferimento non esattamente prospero e fiorente.
Eppure per tutti quei
rockofili che non hanno ancora perso del tutto l’innocenza e il candore, vedere assemblati un bel po’ dei propri beniamini in un’unica entità sonora continua a garantire una piccola “scossa” emotiva, alimentata dalla suggestione (o dall’illusione, se preferite …) di assistere ad una comunione di anime artistiche affini, pronte a confrontarsi e a condividere con entusiasmo le proprie passioni sulla base della competenza e della vocazione.
I
Nighthawk, gruppo a “configurazione variabile” formato durante la pandemia da
Robert Majd (Metalite, Captain Black Beard, Fans Of The Dark) proprio con lo scopo di dare vita a collaborazioni con svariati musicisti, appare così uno degli esempi più significativi di quanto appena espresso, e se oggi il nostro, per il terzo
album del progetto, decide di coinvolgere
Linnea Vikström (Thundermother),
Robban Eriksson (The Hellacopters),
Peter Hermansson (220 Volt),
Nalle Påhlsson (Treat) e
Richard Hamilton (Houston), la curiosità di ascoltare questo “
Vampire blues” è nonostante tutto abbastanza pressante.
Il primo fatto sorprendente è l’esclusione di
Björn Strid (Soilwork, The Night Flight Orchestra), con la relativa decisione di affidare completamente la gestione microfonica alla
Vikström (la quale aveva già partecipato all’esordio “
Midnight hunter”), che lascia presumere il ricorso ad un
sound maggiormente ruvido e diretto, dopo le smussature dell’ottimo “
Prowler”.
Aggiungiamo che l’unione tra
monicker della
band e titolo del disco ricorda un “pezzone” dei Whitesnake ed ecco che non stupisce riscontrare all’ascolto proprio un modesto irrobustimento del suono, completamente devoto all’
hard-rock dei
seventies, tra Deep Purple, Grand Funk Railroad e certe cose degli stessi
‘Snakes.
E allora diciamo subito che la pur validissima prestazione della cantante svedese non cancella del tutto la delusione per l’assenza di
Strid (tornerà, a quanto sembra, nella prossima, imminente, incisione del
supergruppo …), allo stesso modo in cui se avevate apprezzato le melodie leggermente più “ragionate” dell’opera precedente, potreste avanzare qualche minima riserva in merito ai contenuti di “
Vampire blues”.
D’altra parte, però, qualora invece siate maggiormente affezionati soluzioni espressive precipuamente grintose e impulsive, sono certo amerete la foga
rollistica di “
Hard rock fever”, le pulsazioni energiche e seducenti di “
Generation now” o ancora la tambureggiante “
Turn to the night”, sostenuta da una
performance di grande livello di
Linnea (a tratti non lontana dall’illustre connazionale
Elin Larsson) e di un
Richard Hamilton “posseduto” dallo spirito del mai troppo compianto
Jon Lord.
La The Hellacopter-
esca “
Living it up” lascia poi il posto a “
S.O.S. (too bad)” un tastieristico
remake griffato Aerosmith piuttosto riuscito, mentre “
Burning ground” e “
Save the love” piacciono per la costruzione armonica incalzante e vagamente caliginosa.
“
The pledge” e “
Come and get it” sono altri due adrenalinici frammenti sonici, ma se cercate un incremento di quella varietà musicale finora nel programma un po’ carente, sarete lieti di accogliere le scosse
soul e
R&B di “
Hold it baby”,
cover di Sam & Dave eseguita con il fattivo contributo di
Danny Hynes dei Weapon.
Conclusione affidata alla rovente versione
live di “J
ust let go”, brano tratto dal debutto dei
Nighthawk, ad ulteriore conferma di come “
Vampire blues” sia da consigliare a chi aveva particolarmente gradito il “tiro” di “
Midnight hunter” e a tutti coloro che amano i suoni viscerali e istintivi del
rock duro “archetipale”.