Prima considerazione: in Cile ci sono ottimi cantanti e almeno un paio nutrono un’evidente ammirazione per il maestro
Ronnie James Dio e per i suoi più accreditati discepoli, tra i quali ci sono sicuramente
Russell Allen e
Jorn Lande.
Seconda osservazione: suonare
power / prog nel 2024 può essere abbastanza “complicato” e per distinguersi è necessario trovare qualche piccolo espediente stilistico, magari cercando parallelamente di non indispettire gli estimatori del settore meno
open minded.
Terza annotazione (a margine): una resa sonora massiccia e compatta è una vera “manna”, soprattutto per certe tipologie di musica.
Tre
quisquilie per introdurre la seconda fatica discografica dei cileni
Sinner’s Blood, trainati dalla voce stentorea di
James Robledo (già visto nei Demons Down e artefice di due lavori da solista … non troppo distante, per timbro e intenti, dall’illustre connazionale
Ronnie Romeo) e pilotati dalle capacità tecnico / compositive di
Nasson (Chaos Magic), cantante, multistrumentista e produttore dalle valorose intuizioni artistiche.
Eh già, perché decidere di mescolare Symphony X, Evergrey e Masterplan, aggiungendo all’impasto sonoro scorie
alternative, elettroniche e sinfoniche (“forzando” un po’ i termini della questione, si potrebbe parlare di qualcosa tra Adrenaline Mob e Nightwish …) non rappresenta un esercizio espressivo banale, e per riuscire efficacemente nell’intento bisogna avere idee chiare e determinazione.
Assieme a tutti questi lodevoli connotati, credo che a far diventare “
Dark horizons” un viaggio sonico parecchio convincente e coinvolgente sia soprattutto la capacità di rendere il programma, oltre che potente e variegato, anche seducente dal punto di vista melodico, impastando la sopraffina tecnica strumentale (buonissima anche la prova della sezione ritmica formata da
Nicolás Fischer e
Guillermo Pereira) con una forma egemonica di musicalità.
Poter contare sull’ugola erudita e duttile di
Robledo (uno che ha saputo confrontarsi senza timori pure con il miglior repertorio di un certo
Michael Bolton …) rappresenta sicuramente un vantaggio nella gestione di brani che comunque si segnalano spesso per una maturità compositiva piuttosto spiccata.
È il caso di “
Bound”,
opener tellurica ed intrigante, di “
Enemy”, una bordata sonica “ingentilita” dai cori e di "
Not enough”, che combina melodramma e vigore con un adescante tocco “modernista”.
Altrove la formula espositiva funziona con un pizzico di minore incisività, mentre non spiace quando i
Sinner’s Blood, vedasi la
title-track dell’opera, accentuano la componente aggressiva del
sound senza svilire i suoi aspetti più evocativi ed elegiaci.
Discorso a parte meritano, infine, i due tentativi di ampliare ulteriormente lo spettro stilistico: la ridondante “
The man, the burden and the sea”, in cui è la componente sinfonica e teatrale a prendere il sopravvento, e la ballata "
The voice within”, un "diversivo" invece assai riuscito, anche grazie ad un’intensa interpretazione vocale.
“
Dark horizons” è dunque un buon disco, capace di rispettare i parametri fondamentali del genere senza abusarne, lasciando altresì intravedere possibili interessanti evoluzioni di queste sonorità.