Amato e odiato. Un po’ come tutti i fenomeni musicali (e sociali) di enorme successo, il
grunge ha avuto tanti estimatori e altrettanti detrattori, entrambi molto “appassionati” nelle diverse posizioni.
E proprio come accaduto spesso nella
Storia del Rock, anche lo slancio del cosiddetto “hard-rock moderno”, dopo la “sbornia” artistica e mediatica, ha finito fatalmente per inaridirsi, per poi far riapparire alcune delle sue caratteristiche peculiari nella (enigmatica) declinazione
post.
In parallelo, c’è anche chi si rivolge tuttora precipuamente alla versione “originale” del genere e, senza volersi addentrare in complicate analisi sociologiche, diciamo semplicemente che la spiegazione più semplice di tale opzione è da ricercarsi nel fatto che la “nostalgia”, in tempi di scarsa inventiva e man mano che il
rock n’ roll estende nel tempo la sua parabola vitale, non ha preferenze di sorta.
Ciò detto, si tratta di un approccio non condannabile a priori, perché tra i numerosi artisti che preferiscono trarre spunto dal passato invece che tentare “nuove strade” ci sono un sacco di eccellenti interpreti di suoni già ampiamente codificati, e se credete che ispirarsi a modelli molto noti non sia un “grave illecito”, mi sento di segnalare alla vostra attenzione il debutto eponimo degli
Smash Atoms, manifesti discepoli dei migliori Alice in Chains.
Una “dipendenza” tanto evidente da alimentare inevitabili dibattiti, i quali però dovrebbero tener conto del
pathos e della tensione espressiva che gli svedesi (con cantante americano) consegnano alla loro proposta musicale, magnificando in maniera piuttosto credibile una modalità stilistica leggendaria, divenuta alquanto seminale.
Brani ben strutturati, ritmicamente solidi e melodicamente vibranti e intriganti, finiranno per inchiodare all’ascolto anche gli ammiratori degli autori di “
Facelift” e “
Dirt”, a patto, ovviamente, che costoro rifuggano atteggiamenti
talebani nei confronti dei loro beniamini.
In tale contesto, potremmo assegnare a “
Bring the river” la palma di brano più “creativo” dell’opera, mentre altrove, vedasi “
The cloud”, "
Buried under the open sky”, “
Down”, "
The end of the road”, "
Into the light” e “
Pretend”, dove le assonanze con gli AIC si fanno addirittura più pressanti, a emergere è la capacità di trasmettere all’astante un senso d’inquietudine e dramma piuttosto coinvolgente, ben veicolato dalla voce sofferta di
Glen Gilbert.
Aggiungiamo un pizzico di Pearl Jam affiorante nel
blues-psych “
Sunshine” e qualcosa dei Soundgarden rilevabile nella fosca densità di “
The mountain” ed otteniamo un disco che, come molti altri, celebra una fase nodale del
Rock, ma meglio di altri sembra saperne cogliere l’essenza emotiva più profonda … ora però, per il seguito di “
Smash atoms”, è lecito attendersi qualche significativo segnale di emancipazione ispirativa e di evoluzione artistica.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?