Cresciuti presumibilmente a “pane e
Stratovarius”, i greci
PowerCross esordiscono sul mercato discografico, tramite la
Elevate Records, con
The Lost Empire.
La band, guidata dal bravo chitarrista
Spiros Rizos (già nei promettenti
Evil King), resta purtroppo impantanata, da subito, nelle sabbie mobili delle pesanti influenze di Tolkkiana memoria.
Infatti, eccezion fatta per la discreta opener, intitolata
Abyss Of Knowledge e per un breve sussulto, sul finale dell’album, dove effettivamente i
PowerCross riescono a mettere in mostra un pizzico di personalità (e qui, si vede che le potenzialità ci sarebbero tutte), l’intero album, da
Nightlight a
Eternity, passando per la title-track, fino a giungere a
Final Storm, è un continuo susseguirsi di esagerati richiami, nelle atmosfere, nelle melodie e anche in alcuni riffs, spudoratamente riproposti per intero, ai magici Strato degli anni 90, specialmente quelli dell'"Era Dorata", che va da “Fourth Dimension” a “Infinite”.
Solamente nei refrains, la band ellenica prende leggermente le distanze dai finlandesi, rendendo le linee melodiche leggermente più ariose e aggiungendo un pizzico di epicità; del resto, non è da tutti riuscire a riproporre quella malinconia, tipicamente nordica, che solo il song-writing di Timo Tolkki, era in grado di descrivere in maniera cosi intensa.
Come si diceva precedentemente, in chiusura del disco, in corrispondenza delle tre tracce conclusive, ovvero la ballad
The Dark Days, che però, in certi frangenti somiglia troppo da vicino a “Before The Winter” (ARIDAJE!) e le potenti
Waves Of Mercury e
Circle Of Fire (che, nel cantato, ricorda vagamente “Neon Knights” dei Sabbath), si assiste ad un’impennata di orgoglio da parte dei
PowerCross, che finalmente iniziano a fare sul serio, mostrando di possedere una propria visione musicale autonoma, fatta non solo di influenze, ma anche di idee valide, sostanza e tecnica.
In queste circostanze infatti, i greci svestono i panni della “cover band” e cominciano a orientarsi su sonorità più taglienti e solide, sempre dense di neoclassicismi, melodie e intensità.
Peccato solo che, a quel punto, il disco sia già finito!
Rimane cosi, l’amara sensazione di una band incompiuta che, seppur valida tecnicamente, difetti di personalità in fase di song-writing, dove, nel tentativo di sopperire alle proprie lacune, si ricorre in maniera eccessiva alle suddette influenze, che però, finiscono per svilire l’intero lavoro.