Nuovo full length pr gli statunitensi
Demon Bitch i quali, dopo otto anni di distanza, danno alle stampe il secondo album della loro carriera,
'Master Of The Games'. Cambia poco in questo lungo periodo di lavoro, se non il ritorno di
Brian Buckmaster, qui sotto il nome di
Master Commander, al basso dopo dieci anni. Con questo inaspettato, ma decisamente gradevole ritorno, la band prosegue sulla stessa scia musicale iniziata con 'Hellfriends', un metal classico che si muove tra vaghe sonorità NWOBHM e una più prepondertante parte Power metal. Ma, per nostra grazia, non è il Power metal che si intende al giorno d'oggi dove la parte visiva è messa molto (moltissimo) in disparte rispetto a quella musicale, ma qui risuonano ben forti gli echi di band come Agent Steel, primi Vicious Rumors o Helstar, assieme ovviamente ad un tocco personale che non guasta mai. Con una copertina non certo impeccabile, ma comunque dal sapore vintage e sognante per un certo verso, assieme a una durata molto più consistente rispetto al precedente album, va subito detto come
'Master Of The Games' sia un prodotto molto più compatto, vediamo perchè.
Delle band citate in precedenza, il quintetto di Detroit prende una massiccia ispirazione sopratutto dagli Agent Steel, non solo nel riffing, ma più che altro dalla voce, come sappiamo, acutissima di John Cyriis, senza dubbio figura importante per
Logon Saton, che costantemente punta su registri elevati senza mai effettivamente calare, neanche per creare un pizzico di atmosfera o per rallentare un momento, un esempio è
'Not of the Cruciform'. Un breve momento in cui si riesce ad apprezzare maggiormente il suo talento è
'Sentinel At The Spire', tra gli highlight senza ombra di dubbio, dove tra assoli fulminei dal gusto melodico e una prova dietro le pelli del sopracitato
Master Commander,
Saton in parte ne prende consiglio. Strumentalmente, l'album è tutto ciò che un amante delle sonorità classiche può richiedere, tra la veloce
'The Quickening', o
'Tower Of Dreams' che prende in prestito sonorità epicheggianti, o nella conclusiva
'Soldier Of Obscurity' dove ancora, parlando di assoli e di lavoro delle chitarre, siamo davanti a una prestazine ineccepibile.
Dovendo fare il rompi di turno, trovo che complessivamente ogni tanto ci siano dei cambi di tempo troppo drastici e senza un particolare filo logico, che non aiutano a concentrarsi sul singolo pezzo e a percepirlo in maniera uniforme, ma sicuramente il talento c'è, da parte di tutti, quello è impossibile negarlo. Suggerisco solo un maggiore focus sul songwriting, per non incappare in inutili lungaggini, perchè qui di carne al fuoco ne abbiamo veramente tanta.
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