Suoni spessi, profondi e riverberati, ecco come si distende "
The Morn Is Wiser than the Eve", opener del debut album del terzetto tedesco
High Warden, su cui poi si palesa la voce stentorea e vagamente hetflieldiana, e con qualcosa alla Tim Baker, di
A.M. (anche chitarrista) che poi ci accompagna lungo sei minuti abbondanti di un Doom Metal che può ricordare la proposta dei vari Reverend Bizarre, Candlemass o Pagan Altar.
E le primissime spedite battute di "
Devil His Due/Whores Of Yerusalim" replicano inizialmente queste stesse soluzioni, con gli stessi pregi e difetti, poi a metà del suo percorso gli
High Warden sembrano trattenere a fatica il dilagare di una possibile istigazione da parte dei Metallica, che viene comunque contenuta e trascinata nelle sabbie melmose (e magari un po' prolisse) della loro visione musicale.
Fatto un bel respiro profondo, giusto per essere pronti ad un altro episodio dilatato e cadenzato, e invece la successiva "
Burgfrieden" è solo un breve interludio strumentale, mentre a seguire ecco che la più stringata "
The Pale Hunter" si rivela un episodio sabbathiano e con delle marcate influenze da parte dei Mercyful Fate. Tocca quindi alla canzone che dà titolo all'album e che torna a muoversi sulle stesse coordinate della già citata "
Devil His Due/Whores Of Yerusalim", caratterizzata da quelle incombenti pulsioni di energia che però non sembrano mai sul punto di esplodere compiutamente ma finiscono per restare invischiate nella ragnatela intessuta dagli
High Warden, anche se è va rimarcato come la chitarra di
A.M. riesca ad eludere la sorveglianza ritagliandosi lo spazio per piazzare un bell'assolo, giusto prima che il brano scivoli via sotto i colpi decisi del batterista
S.H..
Titolo impegnativo ed ambizioso per la conclusiva "
We Shall Burn At Foreign Shores (The Choice Of Achilles)" e la parte strumentale non può essere certo da meno, con i suoi abbondanti otto minuti di musica che prendono il via con un'introduzione prima acustica e che poi si distorce, sempre al ritmo dell'ormai consueta cadenza doomeggiante, nell'occasione ammantata di una plumbea epicità che ricorda Cirith Ungol e Bathory, ma anche i primi Grand Magus, e che viene sospesa da quel brusco strappo con il quale scopriamo il terzetto accentuare i toni in un convulso finale.
Tanto Doom ma... ancora un po' di confusione.
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