Si fa un gran parlare, spesso a sproposito, del fantomatico valore terapeutico della musica, ma se un artista come
Vegard Wikne dichiara apertamente che la composizione e la realizzazione di questo “
Master of failure” si sono rivelate un sussidio catartico ai suoi disagi psicologici, abbiamo a disposizione una testimonianza autorevole a favore della suddetta tesi.
Dedicare, poi, l’albo alla gestione del “fallimento”, un tema senz’altro spinoso in una società in cui sembra più importante “funzionare” che “essere”, finisce per attrarre ulteriormente la mia atavica curiosità
musicofila, conducendomi dritto nel cangiante universo sonoro dei
Dobbeltgjenger, gruppo di Bergen alla quinta fatica discografica.
L’ambito espressivo dei norvegesi mescola
prog, psichedelia ed
elettro-pop, e se siete pronti ad affrontare una miscela di King Gizzard & the Lizard Wizard, Kasabian, Tame Impala e Tears For Fears, non sarà difficile apprezzare la loro proposta artistica.
Si tratta ovviamente, come accade di frequente nei faticosi tentativi “giornalistici” di comparazione, di una generalizzazione un po’ “forzata” che però dovrebbe (almeno spero …) fornire all’astante un’idea di quello che lo aspetta qualora decidesse di immergersi in un caleidoscopio di chiaroscuri piuttosto affascinante e straniante, in cui convivono turbamenti, euforia e momenti di riflessione, a sostenere in qualche modo proprio l’impressione di processi intellettivi abbastanza convulsi e inquieti.
Aperto e chiuso dalle due parti della ballata elettro-acustica che assegna il titolo all’opera, il programma si snoda attraverso emissioni sonore liquide e sognanti (“
Weaterman”), squarci enfatici e avvolgenti (“
Isolation”) e pulsanti impennate fluorescenti (“
Ticket to the bogeyman”), per poi concedersi nuovamente a garbate e visionarie dissertazioni espressive ("
Credit card”, … una specie di Kings of Convenience in “acido”) o indugiare in ritmi ballabili (“
F.M:L”, “
Chameleon life”, “
Right now I feel alright”) e in arrangiamenti
elettro-soul (“
Good-looking human on the side of the road”, “
Growing is too dull”), il tutto all’interno di un crogiolo stilistico abbastanza “destrutturato”, apprezzabile per l’eclettismo e per un certo gusto melodico, ma forse un po’ troppo indeciso sulla direzione artistica da perseguire.
“
Master of failure” è, dunque, un fascinoso viaggio in una dimensione creativa policroma, da considerare come il frutto di una sorta di “tritatutto” mentale non ancora del tutto “risolto”, e che ciononostante pone i
Dobbeltgjenger tra le tante formazioni intriganti della opulenta scena norvegese.
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