Grida mefistofeliche e aperture eteree, vizio e redenzione, carne, metallo ed elettronica che scorrono in un flusso scandito da un ritmo sostenuto, in grado di rarefare le sue cadenze per incrementare il senso d’inquietudine e poi ancora visioni di Ballard, Lynch se non addirittura Tsukamoto … tutto questo è presente nella musica dei KeeN, costretti ad un’altra autoproduzione (dopo gli unanimemente acclamati “Love with bile” e “Dying life”) solo da una miopia dell’industria del disco “maggiore” a questo punto davvero patologica.
Il nuovo “Dramas in formaldehyde”, ancora una volta curatissimo in ogni aspetto costitutivo, è un’ulteriore orgia estremamente fisica incitata da una voce istrionica, empia e insinuante nelle sue emissioni psicotiche, da chitarre distruttive e da un uso creativo e spesso abbastanza imprevedibile del suono digitale, la quale conferma una certa attrazione per il modo d’intendere l’arte esibito da Rammstein, The Kovenant e Marilyn Manson, ma ratifica al tempo stesso pure una considerevole personalità nel manipolare e rendere proprie tali suggestioni, in una misura probabilmente addirittura maggiore di quanto era stato rilevato nel suo illustre predecessore, da me già incensato su queste stesse pagine.
Continuando nella medesima analisi comparativa, in questo Cd ho riscontrato un’accresciuta impressione di “malvagità” complessiva (l’interpretazione vocale contribuisce non poco a tale percezione) così come la componente pop-gothic-wave, pur sempre presente e assai importante nel gioco dei contrasti, appare alle mie orecchie come leggermente meno “sfacciata” e più elaborata, costringendo l’ascoltatore ad un’applicazione a superiore coefficiente di “concentrazione” per poter comprendere appieno tutte le sfumature e le sfaccettature di quella che non esito a definire un’esperienza sensoriale assai totalizzante.
Come e più che “Dying life”, quindi, “Dramas in formaldehyde” si manifesta come una forma di vita opalescente e apparentemente inafferrabile, capace di fare esplodere quasi senza preavviso la sua forza espressiva e trasformarla in migliaia di spilli d’adrenalina che ti percorrono veloci le vene e la spina dorsale, risalendo fino alla materia cerebrale, che rischia seriamente di essere inficiata nella sua normale funzionalità da tali continue sollecitazioni.
A questo punto uno studio minuzioso su ogni singola traccia o, ancora peggio, la coercizione ad una discriminazione (mi limito ad ammettere una passione “insana” per “Step by step” e “Lost my pride”… ops!), non solo è perfettamente inutile, ma anche potenzialmente controproducente, dato l’alto rischio di non tradurre efficacemente con delle semplici parole le sensazioni ricavate dagli otto brani del disco, in sostanza tutti a livelli stratosferici.
A chiosa di questa valutazione assolutamente entusiastica, non rimane che una considerazione su Shirley, un cantante di gran valore e parecchio adeguato, che ritengo però non abbia ancora esplorato completamente le sue enormi potenzialità comunicative e lo spazio per un altro appello “accorato” al business discografico “che conta” … Egregi Signori, cos’altro Vi ci vuole per scuotervi dal Vostro torpore e accorgervi di questo “piccolo” concentrato di talento italiano?
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