Di questi tempi non è difficile “rischiare” di trascurare formazioni valide e meritevoli, e questo anche se sono assistite da etichette di prestigio, sono supportate da produttori di fama e tra i loro effettivi sono individuabili musicisti dai
curricula piuttosto incoraggianti.
I danesi
Bloody Dice, com’è facile immaginare dal titolo dell’albo, sono alla seconda incisione, ma nonostante il patrocinio della
Eönian Records e il supporto in cabina di regia di
Flemming Rasmussen, non credo abbiano ottenuto finora un adeguato riscontro, verosimilmente fagocitati da un
rockrama veramente febbrile e congestionato.
Un peccato, almeno se vi reputate estimatori di sonorità
hard n’ heavy “ad ampio spettro temporale”, di quelle, cioè, in grado di abbracciare un contesto musicale che va dai Metallica ai Volbeat, passando per Rainbow e Black Stone Cherry.
La presenza di
Jakob Haugaard (Iron Fire) e
Dagfinn Joensen (Fate), ad affiancare
Nickie Jensen e
Peter Larsen (entrambi con esperienze nei meno noti Violmace), che dovrebbe fornire all’astante appassionato un pizzico di rassicurazione e d’incentivo alla considerazione, in una “scena” così stipata di collaborazioni e alleanze di pregio, finisce anch’essa per esporsi al pericolo di dissolversi in un calderone da cui i nostri in realtà emergono fin dall’introduttiva “
Cry for war”, con il suo
groove denso e pulsante.
Una “distinzione” basata sulla tensione espressiva e non sull’originalità della proposta, la stessa che ritroviamo nelle torve caligini di “
Maze”, nell’incedere magnetico e circolare di “
Break the circle” e pure nelle rocciose “
The bitch is crazy”, "
Struggling to breathe” e “
Madness” (con le ultime due caratterizzate da un afflato vagamente
Priest-iano).
A beneficio dei (tanti) cultori della
NWOBHM istoriata di attitudine
punk, arriva l’
anthem “
Back to hell”, ma francamente preferisco i
Bloody Dice quando espongono soluzioni melodiche maggiormente suadenti, come accade in “
Unspoken”, o laddove impregnano di colate
blues n’ psych le loro composizioni, vedasi “
Don’t know where we’re going”, richiamante alla memoria qualcosa tra Soundgarden e My Sister’s Machine.
“
Face the truth”, degna di apparire nelle programmazioni di
radio-rock contemporaneo accanto a Alter Bridge e Shinedown, sigilla “
2” e lo pone, qualora le suggestioni sommariamente descritte siano gradite, tra gli ascolti consigliati del 2025.
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