Ritornano i Godflesh. Ritornano a due anni di distanza da “Us and them”, lavoro in cui la band, esponendo il suo lato più elettronico e di frontiera convinse molti ma non tutti.
Ritornano soprattutto con un nuovo contratto con la Music for nations a garanzia di un futuro roseo per un nome principe nella codificazione di suoni estremi e ostici nella scena inglese negli ultimi quindici anni.
Ascoltando “Hymns” non si può non notare come Justin Broadrick, GC Green ed il ‘nuovo’ batterista Ted Parsons abbiano interpretato i nuovi pezzi in studio con una forza impressionante, nel tentativo di offrire un disco ‘fisico’ e di impatto sonoro.
Tentativo riuscito che pone i Godflesh in un limbo in cui sembrano voler aggiornare il proprio suono contaminandolo nei riffs con una impronta che in alcuni fasi si potrebbe definire ‘korniana’ in “Dead,dumb&blind” e “Tyrant”, due brani pervasi di schizofrenia e tribalismo; alla contemporaneità mirano anche “Paralyzed” e “Voidhead”, in cui l’eco del ‘wall of sound’ intellettuale di helmettiana memoria sorregge la voce di Broadrick, ora filtrata e caligginosa, ora monotona e paranoica.
Sicuramente è questa voce ad essere protagonista nel disco, in “For life”, “Vampires”, nella ultra sabbathiana “Defeated” e in “Jesu”, pezzi in cui la band produce massiccie, a tratti eccessive, dosi di distorsione, frustate di basso e martellamenti di batteria.
‘Canzoni’ nel più puro stile Godflesh che però non brillano rispetto alla industriale “Antihuman” e soprattutto nei confronti di “Anthem”, un incredibile blues bianco ricco pathos, sentimento che riemerge nella conclusiva ‘ghost-track’ in cui i tre inglesi si ammantano, caso quanto mai raro, di un suono, notturno, rarefatto.
Certamente i Godflesh con lavori come “Streetcleaner” e “Pure” hanno toccato le loro vette artistiche ma dopo più di dieci anni sono ancora in grado di scrivere musica valida e personale; una dote piuttosto rara in questi tempi.
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