E' con immenso dolore che mi accingo a parlarvi del nuovo album dei teutonici At Vance, band che pur non rappresentando assolutamente nulla di innovativo o di qualitativamente sconvolgente, amo alla follia. Dolore perchè il loro quarto disco in studio è stata una piccola delusione, alimentata principalmente dalle aspettative, forse esagerate, che avevo per l'esordio di Olaf Lenk e soci sotto PL Records - AFM.
Only Human non è un pessimo album, è semplicemente un disco che sta nella media delle uscite classic/power degli ultimi mesi e che probabilmente sarà comprato solo da chi apprezza già la band.
Mesi fa, quando appresi del cambio di etichetta degli At Vance, un tempo con la Shark Records, gioii perchè il passaggio alla AFM rappresentava l'abbandono di una label con budget limitati che non aveva mai consentito una produzione decente a Lenk e soci, per passare ad un'etichetta reduce da ottimi successi commerciali, garante se non della qualità almeno di produzioni e promozioni adeguate. L'impegno di un nome come Sascha Paeth nella registrazione dell'album mi aveva fatto sperare ancora di più, ma lo storico produttore dei Rhapsody in questa sede si è occupato solo del mixaggio, e nonostante un lavoro discreto la resa sonora continua a rimanere il punto debole degli At Vance.
Oltre a questo va considerato il songwriting della band, totalmente affidato al chitarrista Olaf Lenk, che pur avendo dei picchi qualitativi non è molto vario e alla lunga soffre del ripetersi di alcune soluzioni e strutture musicali. Le ispirazioni sono sempre quelle e spaziano dai celeberrimi Blackmore (omaggiato con una buona cover di I Surrender) e Malmsteen, ai lidi rock dei Queen fino al pop degli Abba in passato "coverizzati" in ogni album. Non manca la musica classica che è riprodotta fedelmente anche in Only Human, e la Primavera di Vivaldi pur essendo un brano difficilmente adattabile ai suoni elettrici viene realizzata discretamente, come anche un Solfeggietto di Bach (o dovrei scrivere Solfegggieto?).
Alcuni brani, come l'opener, la title track e la strana Sing this Song hanno tutte le carte in regola per divenire pezzi forti della band, peccato che il resto del disco sia condito da troppi mid tempo e da quel senso di deja vu di cui parlavo prima che penalizza in maniera particolare la clamorosa voce di Oliver Hartmann che quando è libero di esprimersi è semplicemente divino.
Sconsiglio l'album, c'è di meglio in giro, ma non posso che consigliarvi lo spettacolare Heart of Steel uscito ormai tre anni fa, lavoro che poche power band attuali possono sperare di eguagliare.
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