Quando negli anni ’80 alcuni ingenui pensarono che il metal avesse toccato limiti invalicabili in fatto di velocità e violenza non sarebbero potuti essere più lontani dalla verità. La contaminazione con l’elettronica nel decennio successivo ha sfondato ogni barriera permettendo cose impensabili fino a pochi anni prima. Musica che fa dell’estremismo la propria bandiera e la propria ragione d’esistenza, simbiosi tra uomo e macchina, alleanza proficua di musicisti e programmatori informatici.
I Bostoniani Decemberwolves hanno assimilato a fondo questi concetti di base. Partendo dalle radici black metal del precedente “Completely dehumanized” hanno innestato nel loro suono un diluvio di elaborazioni computerizzate, sampler, stralci di programmi mass-mediatici, per dare origine ad una serie ininterrotta di ritmiche tachicardiache, a brani simili ad incubi tecnologici dalla freddezza agghiacciante, con l’unico intento dichiarato di raggiungere apici di totale paranoia psicotica da suburbia metropolitana.
Chitarre lancinanti aliene a qualunque forma di melodia unite a chirurgiche batterie campionate dai battiti irrefrenabili, vocals inserite per vomitare testi a metà tra la blasfemia ed il disagio esistenziale, canzoni specchio l’una dell’altra unite in una lunga collana uniforme allo scopo di creare un senso di opprimente soffocamento, diventa allora improbabile segnalare singoli brani in un lavoro strutturato per essere unitario ed indivisibile. Ciò che conta è il rapporto che si possiede con il metal alienante, tecnologico, sintetico, terribilmente violento ai limiti del parossismo ma anche impegnativo da seguire fino in fondo causa il tema monodirezionale proposto. Personalmente ritengo quest’album un lavoro discreto, un tentativo di andare oltre i confini del black schizofrenico ( post-black?), ma non certamente gradevole, cosa che il gruppo non tiene ad essere.
Un delirio urticante riservato agli affascinati dall’estremo.
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