Sembra ieri che gli Alabama Thunderpussy erano un nome per pochi carbonari del rock e procurarsi i loro primi lavori significava imbarcarsi in un'odissea di volti inespressivi e sguardi vuoti. Invece il gruppo statunitense ha già festeggiato il decennio di attività, diviso il palco con gruppi di prima fila, ed ora pubblica il suo terzo full-lenght targato Relapse.
Il tempo passa e spesso modifica lo stato delle cose. Non che adesso gli ATP vendano milioni di copie o siano rockstars, però qualsiasi fan della prima ora potrà testimoniare la loro crescita in fatto di visibilità, notorietà e professionalità, rispetto agli esordi semi-amatoriali.
La band di Richmond ha ottenuto risultati ben superiori a quelli di colleghi emersi nello stesso periodo, poi rimasti inchiodati ai blocchi di partenza. Grande peso ha avuto il distacco rapido e deciso dall'iniziale etichetta di stoner-band, la definizione che oggi tanti considerano alla stregua di un virus letale per qualsiasi musicista. Altro punto fondamentale l'aver fiutato, prima e meglio degli altri, la direzione musicale più promettente a lungo termine adattando di conseguenza il proprio sound. Infatti oggi gli ATP sono uno dei migliori esponenti di quello stile heavy che funge da ponte tra le rive opposte del rock e del metal, un filone che negli ultimi tempi si è costantemente arricchito di nuovi praticanti.
Ma avendo giocato d'anticipo, gli statunitensi hanno superato da un pezzo la fase di perfezionamento della proposta ed in questo ultimo album dimostrano di averla portata alla sua dimensione definitiva.
L'heavy metal, l'hard rock e lo spirito sudista si fondono insieme in un'armatura impenetrabile ed inscindibile. In alcuni punti risaltano le strutture ritmiche d'acciaio, altrove le aspre linee vocali della tradizione southern o le chitarre fiammeggianti da rockers della vecchia scuola, ma è solo dal sapiente dosaggio di tutti questi ingredienti che nasce la giusta alchimia vincente. Una cosa che la band americana questa volta ha saputo fare davvero bene, realizzando un lavoro di grande tonnellaggio ma dai toni meno asfittici rispetto al recente passato.
Un contributo importante è venuto dal nuovo vocalist Kyle Thomas, ex-Floodgate, la sua interpretazione da combattente redneck ha convinto il resto della band ad un salutare passo indietro rispetto al tiro troppo metallico degli ultimi lavori. Rimane un disco inadatto ai cuori teneri, ma neppure è più compresso ed ostico come gli ultimi capitoli.
Ad esempio i tamburi di guerra che introducono "The cleansing" richiamano uno dei loro side-project, Axehandle, ma invece di preannunciare il caos belluino sfumano verso coordinate meno truci di classicismo rock. Pezzi brevi, compatti ma completi di tutto, con un grande sfoggio di muscoli, barbe incolte e feroce groove sudista ("Whiskey war, Valor") ma anche possenti adattamenti dell'heavy epico anni '80 ("Greed) con argomenti simili a quelli sentiti nei Bible of the Devil.
Finalmente Ryan Lake ha trovato il coraggio di inserire ovunque il suo solismo fulmineo e pungente, ed i brani ne guadagnano in snellezza e fantasia. Sono anche migliorati i contenuti melodici, sia nelle linee vocali ora meglio connesse al tessuto strumentale e salite ad un livello superiore di scorrevolezza ("Words of the dying man"), sia nelle brevi interruzioni atmosferiche che spezzano l'incedere tellurico per concedere attimi di respiro arioso ("Void of harmony"). In generale si percepisce che la formazione statunitense è cosciente di aver completato lo sviluppo della propria formula e la esegue senza più alcuna indecisione.
Chi ha seguito l'avventura degli Alabama Thunderpussy dall'inizio, vedrà nel nuovo album il coronamento del loro percorso di maturazione. Chi ancora non li conosce ma apprezza l'heavy d'assalto privo di etichette limitanti, faccia un pensiero a questo "Open fire" che non teme il confronto con tante blasonate uscite in campo rock e metal ad alto voltaggio.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?