I Sonata Arctica hanno smesso di essere una band power metal in senso stretto subito dopo il loro disco d’esordio: già il successivo “Silence”, coi suoi numerosi richiami al pop e all’Aor degli anni ’80, e ad una costruzione dei brani mai banale, aveva smentito clamorosamente tutti coloro che si erano sbilanciati a definirli la brutta copia degli Stratovarius (chi scrive ritiene che dopo il 1996 Timo Tollki non si sia mai nemmeno lontanamente avvicinato ai livelli di “Ecliptica”, ma questa è un’altra storia…). Poi era arrivato “Winterheart’s guild”, un disco controverso come pochi, ricco di episodi spiazzanti e nel complesso molto poco speed; l’ultimo, meraviglioso “Reckoning night”, ha riportato la band finlandese in territori maggiormente famigliari, ma con una complessità ed un’intelligenza tale che definirlo un semplice lavoro power sarebbe un’eresia…
Sono passati quasi tre anni da allora, abbiamo avuto un tour di spalla ai Nightwish (che concerto quello di Milano!), uno da headliner l’anno successivo (altra esibizione da incorniciare), un dvd di ottima qualità, ed ecco che, quasi in sordina visto che era stato annunciato per il 2008, arriva questo “Unia” a mettere ulteriore carne al fuoco…
Che questa volta abbiano esagerato? Che Toni Kakko abbia eccessivamente confidato nel suo estro compositivo? Già, perché l’ora abbondante di musica che i finlandesi ci hanno regalato, pare avere come scopo unico quello di disorientare gli ascoltatori, di non dar loro nessun punto di riferimento: al di là della voce di Toni, che rimane un marchio inconfondibile, il resto sembra non avere né capo né coda. Le canzoni sono intricatissime, ricche di cambi di tempo e di intenzione, c’è una melodia diversa ogni venti secondi e come se non bastasse ben poche hanno il pregio dell’immediatezza: se volete avere un’idea più precisa, immaginate una macchina che va a zig zag alternando testa coda e frenate improvvise . Decisamente poco rassicurante. Devo essere sincero: al terzo ascolto avevo la netta impressione che avessero fatto il passo più lungo della gamba e stavo iniziando a mettere insieme una stroncatura coi fiocchi, e proclamare solennemente la fine invereconda di una giovane e promettente band che avrebbe avuto l’unica sfortuna di essere guidata da un frontman eccessivamente egocentrico.
Ho invece preferito pazientare e dare un’altra chance a questo album: credo sia stata la scelta giusta. Probabilmente occorreranno ulteriori mesi per assimilarlo al meglio, ma la sensazione è che la band di Oulu abbia semplicemente voluto scrivere un disco più complesso ed elaborato, approfondendo ulteriormente quella componente “progressiva” presente su “Reckoning night” e mescolandola con le sue molteplici influenze estranee al metal. Una mossa non molto diversa da quella tentata dai Blind Guardian all’indomani di “Tales from the twilight world”, con l’unica differenza che questa non risulta del tutto riuscita. Alcuni episodi come “In black and white” (una sorta di “Misplaced” più complicata), “It won’t fade” (forse il brano che più di tutti ricalca il tipico trademark dei Sonata), il singolo “Paid in full” o ancora “The harvest” (unica, autentica sfuriata speed del disco, anche se tutt’altro che lineare) risultano ben riusciti e decisamente appetibili; altri (“Caleb”, “The vice”, “Fly with the black swan” tra le altre) sembrano alquanto disorganizzati, e pur presentando al loro interno idee e spunti notevoli, finiscono per far venire il mal di testa. Ottimo come sempre il lavoro di Toni Kakko con le vocals, anche se a volte certe soluzioni alla Queen appaiono forzate e prevedibili. Più ancora che in precedenza, il singer costruisce su di sé le varie composizioni, relegando le parti strumentali (spesso intricate ma mai veramente decisive) a mero contorno. Tutto ciò non contribuisce certo a creare unità nelle singole canzoni: l’esempio migliore di questo sembra “My dream’s but a drop of fuel for a nightmare” (titolo che è tutto un programma di quanto troveremo nei testi, immagino!), che parte come una ballad per poi diventare una sorta di epic speed con venature folk, bella ma troppo incasinata per non sembrare solo un esercizio di stile…
C’è un solo brano, la sofferta “For the sake of revenge”, che rasenta il capolavoro. Il resto è interessante ma sa troppo di promessa incompiuta, a metà strada tra la giusta aspirazione a non ripetersi e l’incertezza di chi non ha bene in testa che cosa proporre di nuovo.
Hanno del fegato comunque, su questo penso sarete tutti d’accordo…