“Black halo” è stato un disco magistrale come pochi: complesso e ricercato eppure straordinariamente immediato, che ha saputo mescolare il passato e il futuro di questa band con una leggerezza francamente disarmante.
Diciamolo pure: dare un seguito ad un capolavoro così non era semplice, forse era addirittura impossibile. Dunque lode e onore ai Kamelot per averci provato, per aver tentato di rinnovare la propria proposta musicale pur senza discostarsi troppo dal suono magniloquente e teatrale che li ha resi famosi.
Purtroppo, se il precedente disco era un miracolo, i miracoli non possono accadere sempre, altrimenti non sarebbero tali. “Ghost opera” è un bel prodotto, ben suonato, ancora meglio confezionato, con un suono che spacca come non mai, ma oltre, mi dispiace, non si può andare.
Venendo da un elaborato concept in due parti, Thomas Youngblood e compagni hanno badato innanzitutto a cambiare la formula: dieci canzoni indipendenti per quarantacinque minuti totali sono sicuramente una dichiarazione d’intenti. “Ghost opera” è da questo punto di vista più diretto dei suoi predecessori, ma è solo un’apparenza. Le atmosfere sono nel complesso più cupe, più oscure, in certi frangenti al confine col gothic, e le linee melodiche (vera forza di questa band dall’ingresso di Roy Khan), pur presentando qua e là buone intuizioni, appaiono più contratte e meno catchy del solito. Al di là di questo, siamo di fronte al classico disco dei Kamelot post “Kharma”: metal neoclassico e orchestrale, dai chiari toni epico-romantici, al servizio di brani in cui l’elemento power ha da tempo lasciato il posto ad una forte teatralità.
Niente male, se non fosse che questa volta mancano le canzoni. “Rule the world” e la title track sono grandissimi pezzi, che fanno quasi sperare in un altro masterpiece. Purtroppo però gli episodi seguenti si attestano su livelli decisamente inferiori, con “Human stain” che tenta di riprendere le atmosfere di “The haunting” senza però riuscirci, e “Blucher”, che pur presentando interessanti vocals filtrate (i suoni moderni rivestono uno spazio maggiore rispetto al solito, con Khan che ha sperimentato moltissimo sulle sue parti) si perde via piuttosto rapidamente.
Ottima invece “Love you to death”, tristissima ballata gotica piuttosto elaborata nella struttura ed emozionante nelle sue melodie: probabilmente il pezzo più originale dell’intero lotto. La seconda metà del disco è molto più ordinaria, tra pezzi speed francamente poco ispirati (“Up through the ashes”, “Silence of the darkness”) ed episodi più soffusi ed evocativi che però sanno di già sentito (“Anthem”).
Non fraintendetemi: se un lavoro del genere fosse arrivato subito dopo “Kharma” o “Fourth legacy” adesso staremmo tutti qui ad asciugarci la bava. Purtroppo invece, più un gruppo ti abitua bene, più il pubblico diventa esigente, dimenticando talvolta che ha di fronte niente di più che fallibili esseri umani. Perdoniamo ai Kamelot questo piccolo passo falso e godiamoci lo stesso “Ghost opera”, perché in tempi di carestia come i nostri un lavoro del genere è comunque manna dal cielo.
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