Dopo l’uscita di “Stash”, esordio datato 1999, non erano quasi più giunti segnali sul reale stato di salute della formazione statunitense e sinceramente sospettavo fossero ormai persi dentro i loro densi aloni di fumo. I Bongzilla rispuntano invece in gran forma, confermati dalla Relapse (impegnata a saccheggiare l’area stoner/doom), e freschi del nuovo “Gateway” che si posiziona sulle direttive del precedente lavoro ma li fotografa in sensibile miglioramento. Sfoggiando un’ispirato artwork dei ragazzi della Malleus il disco si presenta finalmente con una produzione adeguata che premia con il giusto rilievo il caratteristico sludge-doom del gruppo: una serie di riffs estirpati ai Black Sabbath ed appesantiti all’inverosimile, spesso reiterati ossessivamente nello stile degli Sleep di “Jerusalem” o degli Electric Wizard di “Dopethrone”. Il muro di chitarre elefantiache, elemento principale del sound, viene attraversato da intense vibrazioni stoner a differenza, per esempio, dal taglio affilatamente metallico di altri cultori del genere tipo i Cavity e ciò può garantire alla band un pubblico allargato agli stoner-freaks, sebbene le rare ma velenose ed isteriche vocals di Muleboy non appartengano certo al patrimonio del desert-sound. Il quartetto ha sempre sposato la linea delle lunghe fasi strumentali di impatto annichilente, interrotte bruscamente da brutali e raggelanti incursioni nel doom sulfureo, che qui troviamo esaltata nell’apice dei nove maniacali minuti di “Stone a pig”, un diluvio di elettricità malata dove va segnalata l’eccellente esecuzione del drummer Magma, in particolare per il dinamico uso dei piatti. Analogo discorso può essere fatto per la stordente title-track o per “Bongsession” colonna sonora di una giornata allucinogena, ma il miglioramento del gruppo si coglie proprio nella superiore definizione dei brani rispetto al passato, diminuisce la sensazione di ascoltare un’ unica interminabile traccia e si evidenzia un songwriting maggiormente curato, anche se dai Bongzilla e da gruppi similari non si deve pretendere raffinati arrangiamenti bensì potenza distruttiva, che certamente non manca nelle rovinose cadenze mortali di “Sunnshine green” e “Hashdealer”. Qualcosa di derivativo da Osborn e soci si nota nell’opener “Greenthumb” ma è scusabile se si considerano i margini ristretti di originalità che questo stile integralista ha da offrire. Piuttosto dubito che questa formazione otterrà mai la benchè minima visibilità al di là degli esperti del settore, vista la loro tenacia nel proseguire in tematiche “drogate” non come folklore da rinnegare alla prima occasione bensì con insistente e malcelato orgoglio per uno stile di vita “ai margini” che ancora oggi infastidisce chi si nutre di ipocrisia. A parte questo, spero di non cedere mai alla tentazione di smettere di seguire bands come i Bongzilla che difendono ancora un heavy marcio, asfissiante, opprimente, reale. Un buon album per i cuori forti.
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