Il ritorno degli Half Man non può che essere accolto con piacere da coloro che avevano apprezzato quel concentrato di rockblues che è stato l’autoprodotto “The complete field guide for cynics” (1999). Maniacali collezionisti di vinili, competenti appassionati di rock, blues, stoner e psichedelia, maturi hippies e provetti musicisti, gli svedesi si ripresentano con un disco più roccioso, più potente, più compatto, più stoner, senza per questo cancellare le loro imprescindibili radici seventies, e lo fanno sotto l’ala protettiva della nostra Beard of Stars che piano piano sta creando un catalogo internazionale di tutto rispetto in questo settore.
Il vantaggio della profonda conoscenza di numerosi stili musicali preserva gli Half Man dal rischio di diventare una delle tante bands fotocopia che iniziano a saturare la scena, ed anche se “Red herring” è forse meno impulsivo del suo predecessore, la fantasia e le diverse soluzioni restano abbondantemente al di sopra della media. Si parte subito forte con un paio di brani dal taglio pesante, il duro strumentale “Repulsion” ed il cadenzato panzer “Too late” dove risentiamo la timbrica acid-soul della voce di Janne, un po’ cantante di spirituals un po’ rude boscaiolo, ed un tiro stoner promesso dalla band subito dopo il debutto.
Ma il blues è parte integrante del dna di questi scandinavi ed erompe clamorosamente nei dieci minuti di “Sugar mama”, cannibalizzazione di una traccia di J.L.Hooker, una specie di ibrido tra John Mayall e gli ZZTop immersi in un calderone di acido lisergico. Un trip stonerblues.
Forte la struttura psichedelica anche nell’altro strumentale “Departed souls”, una jam allucinogena aperta dal basso rombante e proseguita da numerosi cambi di tempo e di riffs in una stesura non immediata ma avvolgente. Si capta comunque l’esigenza del gruppo di avvicinarsi con più decisione al pubblico di Firebird ed affini, e ciò alza ed accellera il ritmo di una focosa “Hard road”, piena di assoli a profusione e ritmica tambureggiante e della lunga altalenante “Pigs in space”, che gioca sul connubio forte di groove ruvido e libertà liquida, risultando uno dei pezzi più interessanti e riusciti dell’album. Agli amanti delle singolarità segnalo la cover “Willy the pimp” del maestro Frank Zappa, brano fangoso ricamato dall’armonica e dalla lead di Bengtsson.
Nessun kyussismo inutile su “Red herring” ma nemmeno troppe concessioni alla nostalgia dei ricordi lontani che infarcivano il precedente disco, questa volta gli Half Man riescono a coniugare bene l’estrazione di base con la necessità di un sound attuale e sono pienamente in grado di mietere successi tra i seguaci del neo-movimento capeggiato da Dead Meadow, Gorilla, Southfork e compagnia, in attesa di un ulteriore messa a punto sul prossimo lavoro.
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