A breve distanza dall’uscita del debut-album del loro progetto, Glenn Hughes e Joe Lynn Turner si ripropongono in coppia per una realizzazione live che in origine doveva essere riservata al solo mercato nipponico. Così non è stato ed è una fortuna, perché “Live in Tokio” si dimostra un solido pezzo di vero hard rock classico, old-fashion, roccioso e melodico come da manuale, in poche parole l’ennesima prova di quanto hanno significato per la musica rock i Deep Purple ed i gruppi che da loro sono derivati.
Per questo concerto i due maturi rockers si sono avvalsi del contributo di tre musicisti giapponesi di buon livello e la registrazione, per i miei gusti, risulta fin troppo pulita ed asettica. A differenza dei “tecnologici” che amano i suoni da sala operatoria, io preferisco ancora i live sporchi, grezzi, che mi offrano la sensazione realistica di essere schiacciato dalla folla contro una transenna a mezzo metro dal palco, cosa che nel disco presente non avviene ed è la sua principale nota negativa. Naturalmente, vista la carriera decennale dei due artisti, il materiale presentato è estremamente vario e gustoso e copre un arco temporale immenso. Vi sono le nuove canzoni tratte da “H.T.P.”, che non sfigurano certo nel contesto, dalla trascinante “You can’t stop rock’n’roll” alle favolose armonie vocali dei due cantanti in “Devil’s road”, alla funkeggiante “Better man” per finire con il fuoco rapido di “Ride the storm”. Sono presenti i Rainbow “era” Turner con il dolce lento “Street of dreams”,”I surrender”,”Spotlight kid” e la bruciante “Death alley driver”, in rappresentanza dei tre albums che videro il cantante alle prese con la pesante eredità di R.J.Dio ed in misura molto minore di G.Bonnet. Viene perfino riesumata una buona versione di “King of dreams” presa dal non molto felice album dei Purple con Turner alla voce. Tutte ottime tracce, ben eseguite ed ancor meglio cantate con frequenti ed eccitanti duetti di queste inconfondibili ugole rock, ma permettetemi per una volta di fare il barbogio nostalgico dicendo che quando il gruppo attacca “Stormbringer” e “Mistreated”, la musica decolla nella stratosfera. Altra classe, altro spessore. Hughes esegue il pezzo di “Burn” (lì cantata da Coverdale) con una partecipazione ed un’intensità sbalorditive se pensiamo che stiamo parlando di un ultra-cinquantenne con un estenuante vita on the road sulle spalle. Nei nove minuti di durata và segnalata la bella prova del chitarrista Kajiyama, il quale per quasi tutto il disco ha il difficile compito di emulare il maestro Blackmore dei bei tempi e che qui estrae la sua miglior performance con adeguato coinvolgimento. E’ risaputo che di versioni di queste canzoni ve ne sono scaffali pieni, ma io mi emoziono sempre ad ascoltarle e non me ne vergogno affatto. Infine, a chiudere il cd, l’inedita (per noi europei) “Against the wall” che se non erro era presente soltanto nella versione giapponese di “H.T.P.” In definitiva oltre un’ora di splendido hard rock in grado di soddisfare anche i palati più fini.
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